Una figura poco nota fuori dalle mura carcerarie, eppure così importante per dare assistenza e supporto ai detenuti più fragili in un contesto che in molti casi non offre soluzioni di cura adeguate
di Alessandro S. (detenuto nella Casa circondariale di Velletri)*
All’interno degli istituti penitenziari, tra le tante mansioni lavorative svolte dai detenuti, c’è il “piantone”, definizione che non sta a indicare un soggetto con problemi di lacrimazione, bensì un addetto all’aiuto dei compagni più fragili e in molti casi affetti dalle più disparate patologie.
Per entrare nello specifico, il piantone adempie a tutte le mansioni ordinarie e straordinarie della quotidianità in cella e non, come ad esempio la pulizia degli ambienti comuni, la cottura dei pasti, il lavaggio di stoviglie e indumenti, in alcuni casi anche dell’aiuto nella pulizia e igiene personale dell’assistito, fino all’accompagnamento alle visite mediche e ai colloqui con i familiari o con il proprio legale.
Personalmente, da quando sono ristretto, mi trovo al secondo compagno al quale presto assistenza; è un compito che spesso mi lascia con un senso di amarezza e anche di indignazione nei confronti di una giustizia che talvolta sembra insensibile e indifferente nei confronti di persone che hanno sì compiuto un illecito, ma che per la gravità delle patologie da cui sono affette, rischiano di non arrivare vive alla fine della loro condanna. In alcuni casi, le persone che necessitano di un “piantone”, sono addirittura certificate come incompatibili con il regime carcerario anche a causa della carenza di mezzi e strutture di pronto soccorso e l’impossibilità di usufruire di cure adeguate negli istituti di pena. A questo si aggiunge anche la carenza di farmaci e di medici specialisti che in casi particolarmente gravi dovrebbero garantire adeguata assistenza. Credo che le persone che si trovano in uno stato di salute complicato debbano scontare la propria condanna agli arresti domiciliari o con misure alternative al carcere.
Questo, oltre a creare le condizioni per una migliore assistenza, in alcuni casi significherebbe anche permettere a persone gravemente malate di trascorrere il tempo che gli rimane accanto ai propri cari, lì dove possibile. La persona che sto assistendo attualmente ha più di 70 anni ed è affetta da così tante patologie che per citarle e spiegarle servirebbe una laurea in medicina. Dopo la rivolta di fine luglio ci sono stati gravi danni alla struttura nella quale mi trovo e pensando alla persona che assisto, la carenza che più mi preoccupa è quella degli ascensori, ad oggi non funzionanti. Non poter contare sugli ascensori significa infatti avere di fronte una fastidiosa barriera architettonica perché questa persona ha problemi di deambulazione e si trova quindi costretta ad affrontare due piani di scale a piedi. Nel caso di un malore e quindi con la necessità di doverla portare giù, non voglio pensare a cosa potrebbe succedere.
Non sono rari i decessi in carcere e il solo pensiero di dover assistere alla morte di un compagno mi terrorizza. Già vivere “normalmente” la detenzione è una prova di carattere non da poco, viste le tante privazioni alle quali si è sottoposti, soprattutto dal punto di vista affettivo; immaginare di veder morire un compagno sarebbe come sparare sulla croce rossa, con chissà quali conseguenze
e strascichi emotivi. I rapporti che si creano tra le mura detentive, infatti, soprattutto con i propri compagni di cella, sono paragonabili a quelli che si generano in un qualsiasi nucleo familiare.
Forse in alcuni casi sono anche più forti perché le vicende e la quantità di tempo che si trascorre insieme potrebbero a volte superare l’ordinarietà della vita “normale”.
Persone oltre i 70 anni o con gravissime patologie non dovrebbero a mio parere essere recluse, a volte per scontare dei residui di pena di qualche mese; questo non fa altro che gravare sulle loro condizioni di salute e congestiona ulteriormente un sistema penitenziario già al collasso per numero di presenze negli istituti. Mi auguro fortemente che ci sia in merito a questo una presa di coscienza da parte delle Istituzioni, che si mettano da parte politiche basate esclusivamente sul giustizialismo e si lasci spazio a una visione più umanamente consapevole e realista. Chi sbaglia deve pagare, ma sarebbe altrettanto giusto guardare a ogni caso con più umanità e coscienza.
*Articolo pubblicato sul giornale della Casa circondariale di Velletri, “Voci di Ballatoio”, numero 2 – febbraio 2025, con il titolo Il “piantone”, scaricabile da qui.