La paura di morire per mancanza di cure

di Stefano Anastasìa*

Qualche settimana fa, una civile protesta dei detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia (tra cui certamente redattori e lettori di questo giornale), una di quelle legittime proteste che incomprensibilmente un disegno di legge del Governo vorrebbe rendere sanzionabili penalmente, ha richiamato la nostra attenzione sulla morte di un loro compagno, avanti negli anni, diabetico e cardiopatico, che lamentava dolori e sofferenze, apparentemente di natura odontoiatriche.

L’inchiesta della procura ci dirà della tempestività dei soccorsi e dell’assistenza che gli è stata prestata in quei giorni e nelle ultime ore. Con la Garante comunale, Valentina Calderone, ci siamo impegnati a incontrare i dirigenti della Asl responsabile dell’assistenza sanitaria nel polo penitenziario di Rebibbia, per verificare le risorse messe a disposizione dei detenuti e lo stato degli interventi discussi nel tavolo tecnico per la sanità penitenziaria a novembre del 2022 e poi nell’assemblea con una rappresentanza dei detenuti nel marzo scorso.

Certo è che tra i detenuti si palpa con mano la paura di morire dietro le sbarre e a questa paura bisogna dare risposte, innanzitutto qualificando l’assistenza sanitaria in carcere, garantendo la presenza in istituto di specialisti, di strumenti diagnostici e di telemedicina che possano ridurre il ricorso alle visite e agli esami esterni che l’Amministrazione penitenziaria non riesce a garantire per la cronica carenza di personale addetto alle traduzioni in ospedale, ma anche riscoprendo l’incompatibilità con la detenzione delle malattie gravi che non possono essere adeguatamente curate in carcere, anche solo perché il carcere non è in condizione di garantire il continuo contatto con le strutture sanitarie esterne.

Infine, e non sembri parlar d’altro, a quella paura di morire dentro bisogna rispondere anche rinunciando all’ossessione di risolvere tutti i problemi del mondo mettendo la gente in galera, fino a farne un luogo così affollato che qualsiasi disponibilità di personale e di strumentazione è sempre insufficiente alle necessità.

Se il carcere può funzionare, lo può fare con pochi detenuti, per reati obiettivamente gravi e con pene importanti da scontare, adeguatamente seguiti dagli operatori sanitari e penitenziari e accompagnati in un percorso di reinserimento sociale attraverso alternative e opportunità di lavoro e formazione.
Non certo nelle condizioni di sovraffollamento attuali.

*Articolo pubblicato su Non tutti sanno, notiziario della Casa di reclusione di Rebibbia, n. 4, aprile 2024.