La violenza ha radici profonde. La soluzione? Meno carcere

di Stefano Anastasìa Il Riformista, venerdì 2 luglio 2021

Viste le immagini di quel che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile dello scorso anno, la ministra Cartabia ha trovato il tono giusto e ha dato la risposta che la società civile e migliaia di operatori e poliziotti penitenziari aspettavano: quello che si è consumato nel carcere casertano è stato un tradimento della Costituzione e dell’alta funzione assegnata alla Polizia penitenziaria. Nel rispetto del diritto alla difesa, tutti gli indagati sono stati sospesi dal servizio. E forse di qualche misura cautelare a più di un anno dal fatto si sarebbe potuto fare a meno se una simile scelta fosse stata adottata per tempo, impedendo ogni possibile tentativo di inquinamento delle prove.

Ciò che appare impressionante nelle immagini delle videocamere di sorveglianza è la gratuità delle violenze e il sentimento di impunità. Non ho mai pensato che il carcere possa essere un luogo alieno dalla violenza, perché la stessa privazione della libertà si fonda su un latente esercizio di violenza, senza il quale saremmo di fronte a una forma di costrizione volontaria, il che è fuori dal mondo.

Il problema della vita quotidiana in carcere è proprio nella misura di quella coazione. Per questo la Costituzione vieta “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”, perché i costituenti sapevano che la relazione di potere che si instaura tra custodi e custoditi può trascendere, dalla custodia alla violenza, appunto. La professionalità degli addetti alla sicurezza in carcere si vede esattamente nella capacità di esercitare questo discernimento, tra ciò che è inevitabile e ciò che è inaccettabile. Quello che abbiamo visto in scena a Santa Maria Capua Vetere è inaccettabile, e mortifica prima di tutto i poliziotti per bene, quelli che interpretano coerentemente il mandato costituzionale nell’esercizio della loro funzione pubblica. La gratuità di quelle violenze (finanche su un uomo che veniva portato in sedia a rotelle nella sua stanza) sono invece l’indice di una ignoranza di quel mandato e di quella funzione, per cui quelle persone, se indentificate e accertate nella loro responsabilità, devono lasciare il corpo della Polizia penitenziaria.

Ma ciò che più lascia sgomenti, più ancora della violenza gratuita, è la sua esibizione, evidentemente nella certezza della impunità. E questo chiama in causa l’intero sistema penitenziario, i suoi attori e i suoi massimi responsabili. Come è possibile che non uno, due, tre “mele marce”, ma decine di poliziotti, provenienti da diversi istituti penitenziari, concorrano in reati simili convinti di restarne impuniti? La ministra ha già disposto non solo una indagine, ma anche nuovi indirizzi di selezione e di formazione del personale, ma questa cultura ha radici profonde.

E’ probabile che all’interno della amministrazione penitenziaria certe prassi si saranno affermati come “ferri del mestiere”, che bisogna saper usare; altri le avranno considerate giustificabili, se non altro in nome del governo del personale e delle sue pulsioni. All’esterno dell’amministrazione personale, invece, per ragioni di consenso ci sono leader politici e sindacali non perdono occasione di sollevare distinguo, finendo per giustificare qualsiasi cosa accada. Tutto questo, ha detto a chiare lettere la ministra, non è più tollerabile: né dentro né fuori, nessuno può più permettersi di baloccarsi nella retorica dei “padri di famiglia”, dei “servitori dello Stato”. Si può essere buoni o cattivi padri di famiglia (e questo è affare di ciascuno di noi), ma non si è servitori dello Stato se si tradisce la Costituzione.

Ma tutto questo, lo sappiamo, viene anche dalla disattenzione, se non dal misconoscimento, del ruolo del carcere nel nostro sistema di giustizia: non luogo di prevenzione e di punizione dei reprobi, secondo l’immaginario da Prison Break diffuso anche in parte del nostro ceto politico, ma segmento di un’amministrazione della giustizia volta alla composizione dei conflitti, alla riconciliazione e alla inclusione degli esclusi. Questa, dunque, è la sfida più grande: riprendere il percorso in direzione di una riforma dell’esecuzione penale nel senso della sua umanizzazione, a partire dalla minimizzazione della pena detentiva e dalla sua qualificazione. In questa sfida, la ministra sa di poter contare su migliaia di operatori e poliziotti penitenziari, sulla società civile e il volontariato, sugli enti territoriali e le altre amministrazioni dello Stato, sull’avvocatura, la magistratura e i garanti dei detenuti. Lo scandalo di Santa Maria Capua Vetere sia l’occasione di una profonda e radicale trasformazione del carcere e della pena.