di Stefano Anastasìa*
Luigi Saraceni è stato uno di noi, garantisti di sinistra, queste bestie strane che nella lunga stagione del berlusconismo si sono sentite straniere in patria, additate di intelligenza con il nemico alla sola idea di tenersi caro quell’epiteto di “garantisti”, rivendicato in via esclusiva dalla parte avversa (preoccupata esclusivamente delle garanzie della politica contro la giustizia) e considerato dalla propria poco meno di un insulto.
Per me, per tante compagne e compagni di Antigone, per le generazioni più giovani di Magistratura democratica, Luigi Saraceni è stato innanzitutto un maestro e un esempio, la cui storia affonda in quella del Mezzogiorno d’Italia e nel ruolo che i giuristi democratici – all’epoca generalmente e un po’ genericamente socialisti, come il padre Silvio, avvocato e “commissario straordinario” del comune di Castrovillari al tempo della Costituente – hanno avuto nelle battaglie per il riconoscimento dei diritti alla libertà e alla sussistenza dei ceti popolari e contadini. Quella storia Luigi l’ha scritta con prosa limpida e commovente nella prima parte di Un secolo e poco più (Sellerio 2019), una memoria personale e familiare di impegno professionale, civile e politico. Lì si trovano, a bene?cio dei più giovani, di chi oggi decida di scegliere il diritto come strumento di impegno civile, anche i suoi esordi in magistratura, la sua militanza in Magistratura democratica, le angherie subite dai vertici di una magistratura conservatrice, ancora refrattaria ai valori costituzionali.
Io Luigi l’ho conosciuto sul finire degli anni Ottanta al Centro per la riforma dello stato presieduto da Pietro Ingrao, quando da presidente della V sezione penale del Tribunale di Roma argomentava contro la madre della nouvelle vogue penalpopulista italiana, la legge punitiva del consumo di droghe voluta da Bettino Craxi (parabole del socialismo italiano, sic!) e approvata per intelligenza di Giuliano Vassalli (doppio sic!) con l’acquiescenza della Democrazia cristiana. Negli stessi anni, ospiti di Franco Russo e del transitorio gruppo dei Verdi Arcobaleno, ci siamo trovati con lui, Mauro Palma e pochi altri a discutere di strategie di resistenza alla controriforma penitenziaria che vedeva nascere il regime dell’ostatività. Battaglia persa, come tante, ma ne nascerà Antigone, “un’associazione per il diritto penale minimo”, sintetizzerà galvanizzato Luigi, come noi tutti ispirati dall’allora recente pubblicazione della monumentale teoria del garantismo penale di Luigi Ferrajoli.
Poi è venuto l’impegno parlamentare, in rappresentanza della sua Castrovillari e delle nostre ragioni, ostinatamente garantiste. Una tra tutte, resta la sua opera da relatore di una proposta presentata da un collega di parte avversa, diventata grazie alla sua arguzia la “legge Simeone-Saraceni”, legge di civiltà che sospende l’ordine di esecuzione di una pena ammissibile alle alternative fin quando il giudice non abbia deciso se consentire di espiarla fuori dal carcere, sotto il controllo del servizio sociale della giustizia. Ne usufruì, credo, anche Silvio Berlusconi, quando fu il tempo del suo affidamento in prova senza passare dal carcere, quello stesso Silvio Berlusconi di cui Luigi Saraceni nel lontano 1994 argomentò sine ira et studio, nel luogo istituzionalmente deputato, la Giunta per le elezioni della Camera, l’ineleggibilità a parlamentare per il con?itto di interessi generato dal suo essere titolare di un’importante azienda concessionaria dello Stato.
Ancora quando era deputato, insieme a Giuliano Pisapia e Arturo Salerni, prese come avvocato la difesa del leader curdo Abdullah Ocalan, prima che fosse sequestrato e seppellito vivo a Imrali, in Turchia, non senza responsabilità italiane. Poi, lasciata la Camera e scelta l’avvocatura, gli toccò affrontare la sfida più difficile, difendere in giudizio, fuori e nella vita quotidiana la figlia, prima accusata e poi condannata per un grave delitto. Ancora negli ultimi anni, fino alla di lei definitiva liberazione per fine pena, ricordo l’amarezza per una magistratura di sorveglianza che non aveva il coraggio di consentire l’affidamento in prova al servizio sociale dopo tanti anni dal fatto e una lunga detenzione domiciliare senza rilievi.
Ma l’impegno per la figlia non fu l’unico di questi ultimi anni. A Luigi Saraceni dobbiamo l’invenzione degli argomenti del ricorso alla Corte costituzionale promosso dalla Società della Ragione che nel 2014 ha portato alla progressiva caducazione della legge Fini-Giovanardi e dei suoi effetti, in carcere e sui condannati per violazione della legge sugli stupefacenti. E, seppure appartato, ha letto e annotato minuziosamente ogni pagina del processo contro Mimmo Lucano, a sostegno della difesa del vecchio amico e collega Giuliano Pisapia.
Luigi Saraceni, uno di noi: uno di cui la magistratura, l’avvocatura, l’istituzione parlamentare, la sinistra italiana possono andare orgogliosi, la cui memoria è giusto e necessario condividere e tramandare.
* Articolo pubblicato su L’Unità di martedì 4 giugno 2024 con il titolo “Il compagno garantista = Lo straniero”.