La Cassazione davanti al decreto sicurezza: un atto dovuto

di Stefano Anastasìa*

Ma che si aspettavano i Ministri Nordio e Piantedosi, che l’Ufficio del Massimario della Cassazione ignorasse il loro più significativo intervento legislativo in materia di sicurezza e ordine pubblico? O che ignorasse il coro di voci dissenzienti che contro di esso si è alzato non solo da parte di associazioni e movimenti per i diritti civili e sociali, ma anche dalla dottrina (l’Associazione dei professori di diritto penale e gli studiosi del diritto pubblico capitanati da ben tre ex-presidenti della Corte costituzionale) e dal mondo delle professioni giuridiche (Associazione nazionale magistrati e Unione delle Camere penali all’unisono)?

L’Ufficio del Massimario ha tra le sue attribuzioni stabilite per legge quella di contribuire alla funzione istituzionale della Cassazione, di assicurare l’esatta osservanza della legge e l’uniforme interpretazione della legge, anche attraverso la redazione di relazioni sulle novità legislative. E questo il Massimario ha fatto con la relazione 33/2025 sul decreto-legge sicurezza e poi con quella sull’accordo Italia-Albania per la deportazione dei migranti irregolari. Essendo un ufficio del massimo organo giurisdizionale nazionale, esso svolge la sua funzione con la prudenza necessaria, e chi ha letto la relazione contestata non avrà mancato di notare che le critiche al decreto-legge sono tutte attribuite ai loro autori, esterni alla Cassazione, spesso rese davanti alle Camere, prima durante la discussione del disegno di legge e poi della legge di conversione del decreto che lo ha d’un tratto soppiantato. Se in quelle o in altre sedi, ovunque si svolga il dibattito pubblico, scientifico e dottrinario, le opinioni contrarie a questo o quell’aspetto del decreto-legge, o addirittura alla stessa legittimità della sua adozione, sono state ampiamente maggioritarie, se non unanimi, non è cosa che si possa contestare all’ufficio del massimario.

Se dunque il Governo non ha convinto (quasi) nessuno (salvo, forse, i committenti di alcune sue previsioni più spiccatamente corporative, a difesa più degli agenti della pubblica sicurezza che della sicurezza pubblica), non è cosa di cui il Governo può lamentarsi con altri che con se stesso: al Parlamento, purtroppo, può essere impedito di esprimersi, non ancora alle persone libere dal rapporto fiduciario inverso che vige nella nostra democrazia malata, in cui i parlamentari dipendono dal Governo e non il contrario.

E ora, come si conviene in una democrazia ancora costituzionale, in cui non solo la parola è libera, ma la magistratura è indipendente e la Corte costituzionale non è appannaggio del Governo, si apre il gran ballo dell’interpretazione e delle valutazioni di legittimità del decreto, sulla sua procedura di adozione, sui nuovi reati, le nuove aggravanti e gli aumenti di pena, sul carcere per le detenute madri, sulla repressione delle manifestazioni non violente in strada, nelle carceri e nei Cpr, sul divieto di produzione e commercializzazione della cannabis light. Nordio, Piantedosi e i loro corifei se ne facciano una ragione e, invece di stracciarsi le vesti per un atto dovuto, cerchino argomenti credibili per giustificare davanti alle Corti quello che è stato definito il più grave attacco ai diritti civili e di libertà della storia dell’Italia repubblicana, evitando magari di aggravare ulteriormente la loro posizione, come gli chiede il solito Salvini, che ora vuole mettere mano anche al reato di tortura, per consentire ai poliziotti di “fare il proprio lavoro”, come se il loro lavoro fosse quello di usare violenza nei confronti delle persone fermate o detenute.

*Articolo pubblicato sul Manifesto di martedì 2 luglio 2025, con il titolo “I tempi cambiano, dalla parte degli ermellini”.