Morte viva o diritto alla speranza?

Intervista a Stefano Anastasia di Elisabetta Grande, L'Indice, giugno 2021

Il 15 aprile di quest’anno la tanto attesa decisione della nostra Corte Costituzionale relativa alla possibilità di concedere la liberazione condizionale della pena agli ergastolani ostativi non è giunta.  La Corte ha deciso di non decidere fino al maggio del 2022. In gioco c’erano le speranze (al momento deluse) di coloro che, per dirla con Carmelo Musumeci, stanno scontando la pena di morte viva. Cosa credi che abbia mosso la Corte a prendere questa posizione attendista?

Premesso che, nonostante tutto, la Corte ha manifestato il suo orientamento nel merito del quesito che gli era stato proposto, e cioè che l’ergastolo ostativo è incostituzionale, è vero che si è messa in una posizione di attesa, rinviando di un anno l’operatività della sua decisione, in modo da dare il tempo al legislatore di assumere quelle misure di politica criminale che dovesse ritenere opportune per bilanciare la fine dell’ergastolo ostativo con la continuità dell’azione di contrasto alle organizzazioni criminali. E’, questa sospensione, una decisione che non condivido: non necessaria e che non credo che porterà a nulla, considerate le culture giuridiche presenti in Parlamento e l’eterogeneità della maggioranza che sostiene il Governo.

Per di più è una decisione che dichiara l’illegittimità dello status di centinaia di persone e non obbliga i giudici a porvi fine, di fatto accettando che diritti fondamentali costituzionalmente acclarati possano continuare a essere violati dall’autorità pubblica senza che nessuno intervenga. Ciò detto, non dobbiamo dimenticare che la Corte costituzionale è l’autorità giudiziaria più politica che ci sia, composta per due terzi da membri di nomina politica e inserita dentro una trama di relazioni istituzionali che è politica al massimo grado. Non a caso, già nella precedente pronuncia sulla concedibilità dei permessi-premio agli ergastolani ostativi, la Corte si era inventata una nuova valutazione prognostica sulla persona, che dovrebbe obbligare il giudice di sorveglianza a valutare “il pericolo di ripristino” di collegamenti non più esistenti con l’organizzazione criminale. Pura scienza divinatoria, ma evidentemente considerata necessaria all’accettabilità politica dell’affermazione di quel principio di diritto. Già quella decisione fu presa sotto l’enorme pressione di alcuni settori della stampa e della magistratura che hanno esplicitamente sostenuto la legittimità della deroga alla legalità costituzionale e alle convenzioni internazionali sui diritti umani in nome della lotta alla criminalità organizzata, secondo i parametri del diritto penale del nemico. E il coro si era già rianimato in questa occasione. Così, la Corte ha ritenuto di dover chiamare in causa il Parlamento per affrontare le opposizioni che le si sarebbero scagliate contro. E’ stata, quella della Corte, una chiamata in correità del Parlamento: la Costituzione dice questo (l’ergastolo ostativo è illegittimo), fate quel che potete per farlo comprendere all’opinione pubblica, altrimenti vi assumerete la responsabilità di quel che noi non possiamo non dire.

Due recenti sentenze della nostra Corte Costituzionale, la 253 e la 263 del 2019, sulla scia della decisione resa dalla Corte europea nel caso Viola, il 13 giugno 2019, avevano assestato i primi due fermi picconi a quel sistema di automatismi e preclusioni nell’applicazione dei benefici penitenziari che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, ha caratterizzato il regime penitenziario di alcuni detenuti, responsabili dei delitti elencati nell’art 4 bis. La rigida logica per cui alla mancata collaborazione con la giustizia corrisponderebbe necessariamente un non ravvedimento, sembrava abbandonata. Con la prima delle due sentenze- in particolare- anche ai detenuti non collaboranti è stata data la possibilità di accedere al beneficio del permesso premio “allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti”. Credi che, dopo l’ordinanza di aprile, l’ottimismo di quanti immaginavano “una scia giurisprudenziale composta da tante pronunce di accoglimento quante sono le misure alternative alla pena, oggi ancora precluse al detenuto non collaborante” (Pugiotto), sia fuori luogo?

Ottimista non sono, perché intanto registro che finora quelle sentenze hanno avuto una, forse due applicazioni, e neanche per tutti i casi approdati al giudizio delle Corti superiori. Eppure non penso che la Corte possa fare marcia indietro da quanto affermato in quelle sentenze e, soprattutto, da quanto anticipato con la notizia dell’accoglimento della decisione della incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Dalla parte del “diritto alla speranza” c’è qualcosa di più dell’ottimismo della volontà e il Parlamento non potrà resistervi varando una normativa incostituzionale, che faccia rivivere l’ostatività sotto altre spoglie. Il problema saranno piuttosto le decisioni di merito e la capacità della giurisdizione di sorveglianza di rispondere positivamente al giudicato costituzionale.

La realtà esclude in modo assoluto che lo status di un uomo d’onore possa mai cessare, salvo nell’ipotesi (unica) di collaborazione” dice Gian Carlo Caselli, a sostegno dell’attuale preclusione agli ergastolani ostativi di accedere alla liberazione condizionale della pena. “E’ da Lombrosiani pensare che se non ti penti sei mafioso per sempre” sostiene invece Giovanni Fiandaca, ritenendo opportuno e doveroso valutare caso per caso l’effettivo ravvedimento del detenuto che non abbia collaborato. Qual è la tua opinione?

Ho grande stima per Gian Carlo Caselli, ma non capisco come possa evocare l’esistenza di una realtà inoppugnabile e metterla in relazione a una scelta processuale, come tutte le scelte processuali, legittimamente opportunistica. Come hanno ben detto le Corti, si può collaborare senza ravvedimento e si può non collaborare pur avendo maturato un distacco definitivo da precedenti scelte devianti. La verità è che le esperienze delle lunghe pene mette a dura prova l’equilibrio psico-fisico di una persona, inducendola a rivendicazioni identitarie del proprio passato o a difficili oltrepassamenti verso un nuovo modo di essere e di pensare. La minaccia della pena fino alla morte induce più facilmente ad atteggiamenti opportunistici o a paranoie identitarie che a reali percorsi di cambiamento. Nella mia esperienza ho conosciuto decine di ergastolani ostativi, a partire da Carmelo Musumeci, che quel percorso l’hanno compiuto o lo stanno compiendo, nonostante l’ostatività e senza mai subordinarlo a scelte di collaborazione postuma con la giustizia. Sono storie che vanno conosciute, comprese e sostenute, dando concretezza ai principi dell’articolo 27 della Costituzione.

L’Indice dei libri del mese, giugno 2021.