Ormai non si fa più in tempo a pronunciare il numero delle persone che si sono tolte la vita in carcere che c’è qualcuno che ti fa segno che “no, ce n’è una in più”. E’ uno stillicidio insopportabile, tanto quanto è insopportabile la sensazione di inutilità di ogni sforzo di prevenzione. Ho passato una settimana a girare per la regione di cui sono garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, a discutere con dirigenti sanitari e penitenziari (tra le altre cose) dei piani di prevenzione del rischio suicidario e intanto, prima Alvaro a Torino, poi un uomo di 52 anni (di cui ancora non conosciamo il nome) a Sassari, si sono tolti la vita.
Il Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, ha già annunciato integrazioni al piano nazionale di prevenzione e alle linee guida indirizzate agli istituti penitenziari. Magari sarebbe auspicabile riattivare le sezioni di accoglienza per i “nuovi giunti” (nella mia regione, per esempio, praticamente non esistono più, e dove esistono – come a Regina Coeli – sono un tale guazzabuglio che sarebbe meglio non esistessero), ma soprattutto sarebbe necessaria una rinnovata attenzione ambientale alle condizioni di detenzione. Già, perché il rischio che stiamo correndo, individualizzando certosinamente tutto, è che ci si perda nella ricerca delle vulnerabilità dei singoli dimenticando l’ostilità costitutiva del carcere, luogo di programmatica degradazione del condannato, e il suo aggravamento nelle attuali condizioni di sovraffollamento, fatiscenza strutturale e insufficienza del personale dedicato.
Se non vogliamo patologizzare tutto, all’ambiente penitenziario, dunque, dobbiamo rivolgere lo sguardo, a quel sovraffollamento, a quelle strutture, a quel personale, al regime di vita interno al carcere, aggravato da chiusure ingiustificate, da buoni propositi non perseguiti, da cattive proposte minacciate e da obblighi costituzionali a cui si vorrebbe sfuggire. Penso a una circolare che rinchiude in stanza tutti i detenuti (la maggioranza) che non hanno attività da fare, all’incremento di telefonate promesso e mai attuato dal Ministro, alla minaccia di punire le legittime proteste nonviolente dei detenuti, al traccheggiamento in corso di fronte alla sentenza della Corte costituzionale che consente gli incontri riservati dei detenuti con i propri partner.
Siamo ormai ai limiti del sovraffollamento che ci costò la condanna della Corte europea dei diritti umani, e – al contrario di allora – la tendenza è verso l’aumento progressivo della popolazione detenuta. Nonostante le misure alternative alla detenzione e le altre misure di comunità adottate durante o al termine del processo. Nonostante la riduzione percentuale delle persone detenute in attesa di giudizio. Nonostante la stabilità del numero generale dei reati e, in particolare, di quelli gravi contro la persona. Una massa senza precedenti di persone destinate al carcere senza causa e senza prospettive, effetto (forse) indesiderato di un’eccitazione punitiva condivisa dalla società politica (e in particolare da questo governo, che ne ha fatto una bandiera) e dalla società (in)civile, che ama farsi placare dal rito sacrificale della punizione di chicchessia per quel che sia.
Così matura il sovraffollamento, come effetto di un corto circuito irrazionale tra la politica e il popolo, dove l’una si accontenta del prossimo sondaggio, e l’altro dello scalpo di chi gli sta accanto. Così, evidentemente, non se ne esce. E le condizioni non potranno che peggiorare, perché il personale (non solo quello penitenziario, ma anche quello sanitario, per esempio) sarà sempre insufficiente e perché non ci sarà mai modo di mettere mano a una seria opera di recupero e adeguamento del patrimonio edilizio penitenziario non ad auspicabili standard abitativi civili, ma anche solo alle norme di legge violate.
Per uscirne, bisognerebbe ridurre di netto la popolazione detenuta alle trenta-quarantamila unità per cui spazi e personale sarebbero sufficienti. Se in Parlamento ci fosse coraggio, basterebbe un provvedimento di amnistia-indulto di due anni, da approvare prima che sia troppo tardi, prima – per esempio – che il combinato disposto di sovraffollamento e suicidi si sposi con il caldo torrido e l’abbandono estivo delle carceri. Ma di questo non se ne potrà parlare fino alle elezioni europee: non sono più i tempi dei partiti della prima repubblica, che non avevano bisogno dell’ultimo cavillo del codice penale per avere una forte legittimazione popolare. Magari dopo. Intanto è sul piatto la proposta Giachetti di tornare alla liberazione anticipata speciale che si sperimentò all’indomani della condanna europea: un incremento dei giorni scontati per la “partecipazione all’opera di rieducazione” sufficiente – si spera – a ridurre la popolazione detenuta. Vedremo.
Intanto, però, bisogna sapere che un provvedimento straordinario, a questo punto assolutamente necessario, non sarà sufficiente a impedire che il sovraffollamento torni, come è stato dopo l’indulto del 2006, dopo le misure conseguenti alla condanna europea, dopo la riduzione dei detenuti durante la pandemia. Serviranno altre misure, non solo penali e non solo penitenziarie, volte a trattare diversamente la devianza, la marginalità sociale, la povertà, ormai lasciata a se stessa e destinata ad alimentare fatalmente la popolazione detenuta. Il carcere non si salva da solo, se fuori le periferie sono abbandonate, i servizi sociali depauperati, l’assistenza sanitaria pubblica ridotta al lumicino. Perché mai, in queste condizioni, il carcere dovrebbe garantire dignità e rieducazione? Quando in un capoluogo di provincia del Lazio l’ospedale pubblico chiude il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura per assenza di medici psichiatrici, perché mai dovrebbero essercene nel carcere?
Questa è la dimensione politica della questione carceraria: non un affare di settore, ma parte della civiltà del nostro Paese.
*Intervento pubblicato nel quotidiano l’Unità di sabato 30 marzo 2024.