di Stefano Anastasìa*
Il 30 giugno scorso il Presidente Mattarella, ricevendo al Quirinale i vertici dell’Amministrazione e una rappresentanza del Corpo di polizia penitenziaria, ha nuovamente richiamato l’attenzione sulle “gravi – e ormai insostenibili – condizioni di sovraffollamento”, nonché sulle “condizioni inadeguate di molti istituti”, bisognosi di “interventi da intraprendere con urgenza, nella consapevolezza che lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività, alla progettualità del trattamento”. Problemi cui si aggiunge “la carenza di organico, … che riguarda il Corpo, e riguarda tutti gli operatori” penitenziari e della salute in carcere.
Da mesi, e più ancora nelle ultime settimane, si sono succeduti appelli e iniziative per individuare soluzioni a questo che è innanzitutto un problema di sproporzione di risorse, tra quanto richiesto al sistema penitenziario e quanto a esso garantito per svolgere le proprie funzioni nel rispetto del dettato costituzione e delle leggi. Mancano circa diciassettemila posti detentivi, migliaia di poliziotti, personale sanitario e contabile, di nuovo gli educatori e poi magistrati di sorveglianza e relativo personale amministrativo. Abbiamo una macchina che potrebbe funzionare (forse) per 30-40mila detenuti e che ne gestisce quasi 63mila, con l’incombenza – soprattutto negli uffici di sorveglianza – di altre 90mila persone in misure di comunità e altrettanti in attesa, se andare in carcere o eseguire la pena all’esterno.

Il sottosegretario alla Giustizia Ostellari, il presidente del Cnel, Brunetta, il ministro Nordio.
Di fronte a questo vero e proprio collasso di sistema, che viola – non per ipotesi, ma in concreto, proprio ora, in molti istituti penitenziari italiani – i più elementari diritti umani delle persone detenute, ci sono due strade: ridurre il ricorso alla carcerazione o aumentare le risorse di sistema, fino a ospitare dignitosamente 60, 70 o 80mila detenuti. Le due soluzioni sono state icasticamente rappresentate dalle parole con cui i due vicepremier, Salvini e Tajani, ieri sono entrati nel consiglio dei ministri: “nuove carceri” per il primo, “svuotare le carceri” per il secondo. Limpido esempio di unità di intenti nella compagine governativa. Poi, per fortuna, ci ha pensato il Ministro Nordio a rendere chiara la linea del Governo: né l’una, né l’altra. O meglio: ha ragione Salvini (bisogna fare più carceri), ma siccome ci vuole tempo, intanto mandiamo la palla in tribuna. E così ecco di nuovo un nuovo immaginifico “piano carceri” (recentemente la Corte dei conti ha contestato al Governo in carica, solo perché attualmente in carica, il mancato completamento del piano carceri predisposto dal Governo Berlusconi nel 2010, all’indomani della prima condanna europea per sovraffollamento, e perseguito faticosamente da tutti i governi che si sono succeduti nel quindicennio trascorso da allora). Dopo un anno di studio, il Commissario straordinario plenipotenziario promette di risolvere tutto entro il 2027 e i nuovi posti detentivi, che la presidente del consiglio a gennaio prometteva sarebbero stati settemila in due anni e il ministro della giustizia ottomila, sono miracolosamente diventati quindicimila, grazie alla moltiplicazione dei pani e dei pesci che sarebbe garantita dalle nuove strutture modulari già sperimentate per la detenzione dei migranti in Albania (non propriamente spazi come quelli richiesti dal Presidente della Repubblica: adeguati alla socialità, all’affettività, alle attività culturali, ricreative e formative).
Mi dispiace per il Commissario Doglio, per il vicepremier Salvini, il ministro Nordio e il sottosegretario Ostellari, ma le nostre obiezioni non sono solo ideali, di chi pensa che la marginalità sociale – anche per prevenirne la devianza – debba essere sostenuta e reintegrata nella società, non disseminata in moduli detentivi nello stile trumpiano di Alligator Alcatraz, che andranno a occupare i pochi spazi verdi degli istituti penitenziari, gravando ulteriormente sullo scarso personale in servizio, prima di tutto quello di polizia, che sarà costretto a fare turni in quelle strutture e ad accompagnare i detenuti nei corpi principali degli istituti per qualsiasi cosa, da una visita medica, a un colloquio con gli avvocati o con i familiari. E’ soprattutto l’esperienza e la conoscenza del sistema penitenziario italiano che ci porta a dubitare che i pani e i pesci si moltiplicheranno in due anni, che ci sarà il personale per gestire i nuovi spazi e per assistere come si deve più di sessantamila persone, che la crescita della popolazione detenuta si fermerà (anche peraltro anche a causa delle politiche panpenalistiche e carcerocentriche di questo governo). Non succederà come non è successo negli ultimi tre anni, quando mentre la popolazione detenuta aumentava la capienza effettiva degli istituti di pena addirittura diminuiva.
Ecco allora che la parte buona del Ministro Nordio caritatevolmente si china a concedere una “detenzione differenziata” per i tossicodipendenti. Nessuno ancora ha capito di cosa si tratti, se non che l’affidamento in prova al servizio sociale, già previsto fino ai sei anni di pena, potrebbe arrivare a otto. Andate a farvi il conto di quante persone con problemi di dipendenze sono in carcere con pene inferiori ai sei anni attualmente previsti e avrete un’idea della futura efficacia di questa proposta, per cui un inutile decreto lo scorso anno prevedeva l’istituzione di un albo di comunità accreditate che non è ancora stato disciplinato e per cui erano finanziati circa 280 inserimenti (su circa 17mila detenuti con problemi di dipendenze). Intanto però la task-force istituita dal Ministro qualche settimana fa è già stata abbandonata a se stessa, e così i magistrati di sorveglianza chiamati a farne parte: sull’accesso alle alternative e alla liberazione anticipata se la vedano loro. Tra i leit-motiv del governo nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri dell’altro ieri mancava solo il “ritorno a casa loro” dei detenuti stranieri, ma ci ha pensato il sottosegretario Delmastro a ricordacelo: l’anno scorso siamo arrivati a ben 500 detenuti rimpatriati, sui quasi ventimila presenti. Di questo passo i ghiacciai si scioglieranno prima.
Insomma: il governo ha forse detto qualcosa, ma non ha fatto niente per rispondere all’emergenza umanitaria in atto nelle nostre carceri e dovrà invece risponderne davanti ai giudici nazionali ed europei, quando vi sarà chiamata, e politicamente davanti all’opinione pubblica, alle comunità e alle famiglie dei detenuti e degli operatori penitenziari, quando se ne manifesteranno i tragici effetti. Alla fine la loro idea della “certezza della pena”, in carcere, in queste condizioni, produrrà solo più sofferenze, rancore e violenza, e meno sicurezza per tutti.
*Articolo pubblicato su l’Unità di giovedì 24 luglio 2025 con il titolo “L’Illusionista”.