Carceri. 3mila detenuti a casa ma bisogna arrivare almeno a 10mila

Finalmente il Governo ha preso atto che la prevenzione della diffusione del coronavirus in carcere non può essere fatto negli istituti sovraffollati che conosciamo. Sabato scorso ho avuto un interessante confronto con una delegazione dei detenuti della sezione reclusione della Casa circondariale di Civitavecchia. I presenti, che avevano scelto da due giorni la strada di una protesta nonviolenta, attraverso lo sciopero della fame, illustravano con perizia e puntualità le misure di prevenzione del virus diffuse dalle autorità sanitarie (solo due giorni prima era stato a far loro visita il direttore generale della Asl del territorio, sempre presente e attento ai problemi del carcere), e lucidamente argomentavano come sia impossibile rispettarle in un carcere sovraffollato come quello (e tanti altri). Ancora mancano, da parte delle autorità sanitarie e dall’Amministrazione penitenziaria, indicazioni su cosa fare dei compagni di stanza e di sezione in caso di sospetto o positività di uno di loro. Secondo le norme di salute pubblica diffuse tra i cittadini liberi, ognuno di loro dovrebbe andare in quarantena per quattordici giorni, e dunque ognuno di loro dovrebbe avere una stanza singola dotata dei necessari servizi individuali. Chi conosce il carcere sa che questo è praticamente impossibile: cinquanta, cento, duecento stanze singole con servizi autonomi non ci sono neppure cumulando numerosi istituti di pena. Solo i 41bis hanno questo “privilegio”. Dunque, che si fa?

In carcere e tra i familiari dei detenuti cresce, comprensibilmente, la preoccupazione. E cresce anche tra gli operatori, costretti a prestare servizio in quelle condizioni, con un rischio personale di contagiare ed essere contagiati assai più alto che in qualsiasi altro servizio pubblico che non siano quelli di vera e propria trincea ospedaliera. Tutti, e sottolineo tutti, coloro che abitano o frequentano il carcere, direttori e magistrati, detenuti e poliziotti, speravano in un provvedimento coraggioso, volto a far uscire dal carcere almeno quella eccedenza di 10mila persone oltre la capienza regolamentare. Mi dispiace per il senatore Salvini, ma anche la stragrande maggioranza dei poliziotti penitenziari non è dalla sua parte e sa bene che solo una rapida e consistente riduzione della popolazione detenuta può consentire la prevenzione della diffusione epidemica del virus in carcere.

Per quel che se ne conosce, il decreto approvato ieri in Consiglio dei ministri riconosce il problema, finalmente, ma lo affronta ancora troppo timidamente. I semiliberi potranno restare a dormire fuori dal carcere fino alla fine di giugno senza perdere giorni di licenza, e va bene. Per il resto, per diminuire i numeri della popolazione detenuta, si riprende una disciplina già esistente, l’esecuzione delle pene al domicilio, prevista dalla legge Alfano del 2010 (era in carica il Governo Berlusconi e dopo la prima condanna della Corte europea per il sovraffollamento era stato dichiarato lo stato di emergenza penitenziario), e le si dà una nuova veste, da qui al prossimo 30 giugno. I condannati a pena inferiore a diciotto mesi, o i detenuti che non ne abbiano da scontare di più, potranno andare in detenzione domiciliare. Come era già previsto dalla legge in vigore, non potranno godere di questa misura i condannati per reati ostativi, i “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, quelli sottoposti a regime di sorveglianza particolare e quelli privi di un domicilio idoneo. In più non ne potranno godere quelli che hanno avuto sanzioni disciplinari nell’ultimo anno e chi ha partecipato attivamente alle rivolte dei giorni scorsi. Messa così, sembra una restrizione di una legge già esistente, e dunque addirittura controproducente, ma la procedura viene semplificata: l’accertamento dell’idoneità del domicilio lo farà direttamente la polizia penitenziaria, la direzione del carcere non dovrà più fare una relazione comportamentale e il giudice non dovrà più escludere il pericolo di fuga o di recidiva.

Anche se i detenuti con un residuo di pena inferiore ai diciotto mesi sono circa tredicimila, per via delle preclusioni vecchie e nuove il Governo stima che potrebbero usufruire di questa misura rinnovata tremila persone. Se così fosse, va detto, non sarebbe sufficiente. Certo, il segnale c’è. Vengono incentivate prassi virtuose che già si andavano organizzando in molti istituti e distretti, che si potranno consolidare e diffondere. E bisognerà coinvolgere il volontariato e il terzo settore che potrebbe mettere a disposizione dei tanti detenuti senza casa un altro luogo di accoglienza sul territorio. Sulla base della normativa specifica, già vigente, si potranno valutare le istanze di detenzione domiciliare per motivi di salute ai detenuti anziani, immunodepressi, cardiopatici o con pregresse malattie respiratorie. Insomma: si farà tutto il possibile, con il concorso di tutti, come testimonia, da ultimo, la importante presa di posizione del Coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Ma poi, se queste misure e l’impegno degli operatori, dei magistrati, del terzo settore non saranno stati sufficienti, bisognerà tornarci, con il coraggio, la tempestività e la determinazione dettata dalle necessità.