Carceri, tra pandemia e i problemi di sempre

Intervista di Matteo Picconi a Stefano Anastasìa

Dalla rivista Polizia e Democrazia maggio/giugno 2021.

Per mesi sotto i riflettori con l’avvento della pandemia, ad oggi gli istituti di pena sembrano nuovamente dimenticati dai media. Ne abbiamo parlato con Stefano Anastasìa, il Garante delle persone private della libertà per le regioni Lazio e Umbria

(…)

Rispetto a un anno fa sembra registrarsi un lieve calo d’attenzione, da un punto di vista mediatico, rispetto all’emergenza sanitaria all’interno degli istituti di pena. Segno di una stabilizzazione nelle carceri o i media hanno semplicemente smesso di occuparsene come prima?

Purtroppo le carceri fanno notizia solo quando vi accadono tragedie o gravissimi incidenti, come le proteste del marzo dello scorso anno, quando in occasione della sospensione dei colloqui con i familiari più di quaranta istituti ne furono interessati. Durante la seconda ondata della pandemia, un po’ di attenzione, almeno a livello locale, è stata prestata ai ripetuti focolai che hanno interessato gran parte delle carceri italiane. Poi l’attenzione al carcere, come sempre, si è inabissata, ma i problemi restano tutti, dal sovraffollamento alla fatiscenza delle strutture, alle carenze di personale, aggravati dalle difficoltà gestionali di rigorose misure di sorveglianza sanitaria (le quarantene all’ingresso e in caso di positività, i colloqui con i divisori, le ripetute interruzioni delle attività scolastiche e trattamentali). Ma quello che preoccupa non è la disattenzione quotidiana dei media, ma quella della politica e delle Istituzioni, che dovrebbero occuparsi delle modalità di privazione della libertà e di esecuzione della pena non solo quando “fanno notizia”, ma quotidianamente, ciascuna per competenza, per prevenire tragedie e incidenti e per far corrispondere la detenzione in carcere agli obblighi costituzionali del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e di impegno per il miglior reinserimento sociale possibile dei condannati.

Prenda il caso della campagna vaccinale: si è dovuto aspettare fino a febbraio per il primo annuncio che essa avrebbe riguardato anche le carceri, dopo le prese di posizione dei garanti, delle associazioni e, soprattutto, della senatrice Liliana Segre, cui tutta la comunità penitenziaria deve per questo un caloroso ringraziamento. In tutti questi mesi non ci siamo mai stancati di dire che le carceri sono comunità residenziali ad alto rischio di diffusione del Covid-19, per via della convivenza di molte persone, senza il necessario distanziamento personale e condizioni igieniche adeguate, paragonabili solo alle residenze sanitarie assistenziali in cui hanno contratto il virus con esiti letali tanti nostri parenti e genitori. Eppure la diffidenza nei confronti del carcere e dei carcerati è arrivata fino al punto di “dimenticare” per mesi anche solo la necessità di programmare la campagna vaccinale per detenuti e operatori. Francamente, non so se nella storia dell’Italia repubblicana si era mai arrivati fino a questo punto.

La diffusione del virus ha chiaramente esacerbato una situazione già da moltissimi anni piuttosto critica e, a giudicare da quanto riportano gli addetti ai lavori, risulta che siano aumentati i reati e le violenze all’interno delle strutture: un dato reale e consequenziale all’emergenza sanitaria oppure non vi sono sostanziali differenze con la situazione precedente alla pandemia?

Salvo il momento critico dell’inizio del lockdown, che ha certamente inciso sulle statistiche di quelli che in gergo penitenziario si chiamano “eventi critici”, ivi compresi i danneggiamenti e le aggressioni al personale, non mi pare che la chiave interpretativa del periodo della pandemia in carcere possa essere quella della violenza o della commissione di reati, quanto piuttosto quella della paura, se non dell’angoscia, e della solidarietà. Solidarietà c’è stata tra detenuti e tra detenuti e operatori nell’affrontare i momenti più difficili, l’isolamento nell’isolamento e le ripetute emergenze dei focali interni. La paura per molti detenuti era conseguente al rischio di contrarre il virus in carcere, lontani dai propri familiari, dimenticati da Dio e dal mondo. Vivere in queste condizioni è stato difficile, è ancora difficile, e questo ha caricato di tensione la vita quotidiana dei detenuti e quella degli operatori, quelli “di sezione”, i poliziotti e le poliziotte che sono tutti i giorni i primi terminali delle loro richieste e delle loro sofferenze, e gli operatori sanitari, che sono stati sottoposti a un sovraccarico di lavoro appena alleggerito dal supporto degli operatori socio-sanitari messi a disposizione dal governo attraverso la protezione civile.

A distanza di un anno dalle prime misure intraprese per fronteggiare l’emergenza sanitaria si possono stilare le prime somme: tali provvedimenti sono stati sufficienti a reggere l’urto dei contagi e dei decessi?

Qui dobbiamo fare una distinzione, tra i provvedimenti legislativi, quelli amministrativi e quelli sanitari. I provvedimenti legislativi sono stati di gran lunga al di sotto delle necessità. Bisognava far spazio per gestire l’emergenza in carcere, ma governo e parlamento non sono riusciti ad andare oltre minime misure per la detenzione domiciliare e le licenze straordinarie per i semiliberi. A conti fatti, la popolazione detenuta è diminuita di circa 9000 unità (da 62mila a 53mila circa), ma in gran parte per la riduzione degli ingressi e per il ricorso alle misure ordinarie previste dall’ordinamento penitenziario. Questo ha comportato che il sistema restasse in sovraffollamento, aggravato dalla riserva di spazi adeguati per le quarantene e dalla difficoltà a trasferire i detenuti tra i diversi istituti.

Dopo i primi momenti di confusione, che tra le altre cose hanno portato alle proteste del marzo 2020, l’amministrazione penitenziaria ha dato indirizzi importanti, in modo particolare nell’uso delle tecnologie digitali per la comunicazione: le videochiamate hanno finalmente fatto ingresso nella prassi e nell’ordinamento penitenziario e in molti istituti si è sperimentata una vera didattica a distanza. Purtroppo le infrastrutture di rete sono ancora insufficienti e farraginose e da qualche parte vediamo riemergere procedure cervellotiche di autorizzazione all’uso delle tecnologie della comunicazione, ma un tabù si è rotto e questo è un bene, per i detenuti e per l’amministrazione penitenziaria.

Importanti, inoltre, sono stati i contributi della Direzione generale dell’esecuzione penale esterna, della Cassa delle ammende e delle stesse regioni per l’accoglienza sul territorio delle persone scarcerabili, ma senza fissa o idonea dimora. Purtroppo la collaborazione inter-istituzionale va ancora rodata e le misure non sempre sono state efficaci o tempestive, ma è la strada giusta per lasciare fuori dal carcere quella marginalità sociale che non dovrebbe proprio entrarci.

Infine, ci sono state le misure di sorveglianza sanitaria e la campagna vaccinale. Per un lungo periodo, il sistema sanitario penitenziario, come quello esterno, ha sofferto della mancanza di mezzi e strumenti (nei primi mesi della pandemia, tracciare i contagi era difficile, se non impossibile, anche per il ridotto numero di tamponi disponibili o processabili in tempi brevi). Ciò non toglie che gli operatori sanitari abbiano svolto un lavoro enorme, senza supporti adeguati, con turni che in alcuni casi sono diventati massacranti e talvolta pagandone con la vita il sacrificio, come nel caso del dott. De Iasio, dirigente sanitario di Secondigliano a Napoli. Ciò detto, quando finalmente la politica si è decisa, i servizi sanitari penitenziari, supportati dalle rispettive strutture regionali, hanno garantito la rapida attuazione della campagna vaccinale anche in carcere, cosa che apre prospettive da valutare tempestivamente per la “ripartenza” anche in carcere.

L’esigenza di fronteggiare il sovraffollamento negli istituti di pena si è spesso scontrata con una “lentezza” burocratica da parte dei Tribunali di sorveglianza, anche per provvedimenti “di routine”, come le richieste di scarcerazione anticipata per buona condotta: si poteva fare qualcosa di più o tale macchina amministrativa ha funzionato al massimo delle sue possibilità?

È vero, ci sono stati ritardi e disservizi. E anche interpretazioni cervellotiche, di magistrati che non hanno ben inteso le circostanze del loro operare e l’urgenza di dare risposte ai detenuti cercando di contemperare le istanze di giustizia con i diritti fondamentali dei richiedenti e la salute pubblica in carcere. Ciò nonostante, si è fatto molto, in molti uffici di sorveglianza: in alcuni casi sono stati impiegati i tirocinanti a supporto di giudici e cancellerie; in altri casi, l’amministrazione penitenziaria ha assegnato temporaneamente agli uffici giudiziari esperti “matricolisti”, poliziotti con tutte le competenze di ottimi funzionari di cancelleria. Ma la situazione dei tribunali di sorveglianza è organizzativamente disastrosa, con personale (soprattutto amministrativo) ridotto al lumicino e un’arretratezza tecnologica che non è seconda a quella degli istituti penitenziari. Speriamo che il famoso Pnrr arrivi anche qui, a trasformare questo pezzo di giustizia che patisce lo stigma del carcere, e dunque è sempre poco e mal considerato non solo dai media e dall’opinione pubblica, ma anche dal ministero e dalla stessa magistratura.

Quando si è parlato di alleggerire la popolazione carceraria tramite misure di detenzione domiciliare o in strutture apposite, da “fuori” si sono levate voci discordanti, se non addirittura contrarie, quando si trattava di elementi di spicco della criminalità organizzata. Si può sostenere che i diritti di alcuni detenuti “eccellenti” siano subordinati ad altre esigenze?

Con la diffusione della pandemia, si sono imposte due esigenze: ridurre la popolazione detenuta per ridurre i rischi di contagio e consentire una gestione sanitariamente sicura degli istituti penitenziari da una parte, e dall’altra garantire il diritto fondamentale alla salute delle persone più vulnerabili. La nota con cui la Direzione generale dei detenuti del Dap ha evidenziato alle direzioni delle carceri la necessità di indicare alla magistratura competente i detenuti con gravi patologie respiratorie o cardio-circolatorie era niente più che un meritorio atto dovuto, peraltro da me anticipato in una missiva analoga ai direttori delle carceri umbre. Il diritto alla salute non conosce limitazioni nel nostro ordinamento, e prevale certamente sulle esigenze cautelari o esecutive che giustificano la detenzione in carcere. Non da oggi, ma dal codice Rocco esiste la sospensione della pena per motivi di salute: e perché non avrebbe dovuto applicarsi ai detenuti che avrebbero potuto subire le complicazioni più gravi, fino al rischio mortale, dalla contrazione del virus in carcere? Non è stata una bella pagina del giornalismo italiano quella canea sollevata intorno a poche centinaia di casi di detenuti che hanno avuto la revoca o la sospensione del provvedimento di detenzione per gravi motivi di salute. È stato il sintomo di una incultura delle garanzie e dei diritti della persona che speravamo dimenticata in decenni lontani, oltre che di una comunicazione deontologicamente scorretta (la confusione tra pericolosi capi-mafia e affiliati, quella tra magistratura di sorveglianza – accusata di tutto e di “buonismo” – e giudicante, che ha revocato almeno la metà di quei provvedimenti, emessi ancora in fase processuale). Non distinguere nella garanzia dei diritti fondamentali, e in primis su quelli alla vita e alla salute, è il primo e fondamentale distinguo tra la società civile e le sue regole e la società mafiosa e i suoi abusi. Per questo rifiutiamo la pena di morte che loro praticano, per questo la Corte costituzionale e la Corte europea per i diritti umani hanno dichiarato la illegittimità dell’ergastolo ostativo. Spero davvero che i provvedimenti giurisdizionali possano tornare a essere valutati per quello che sono, senza pregiudizi favorevoli o sfavorevoli a seconda di chi ne sia destinatario.

Il ruolo da lei svolto le consente di guardare al fenomeno carcerario da un punto di vista “privilegiato”: c’è una o più storie che più di tutte l’hanno colpita e che sono emblematiche di questo difficile periodo appena trascorso dal mondo dei detenuti?

Tra le molte, vorrei ricordare quelle dei genitori di figli piccoli, se non piccolissimi, che ne sono stati allontanati in modo che possiamo solo sperare non sia irreparabile nel futuro. Con gli adulti e con i figli più grandi, le videochiamate prima e i colloqui in presenza con i divisori hanno consentito il mantenimento di una relazione affettiva significativa. Con i piccolissimi no. Ho ricevuto decine di lettere e appelli in tal senso. Sono mesi che, per esempio a Rebibbia, aspettiamo un’intesa tra amministrazione sanitaria e amministrazione penitenziaria almeno per i colloqui con i bambini in area verde, all’aperto, con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso. Speriamo che l’adesione alla campagna vaccinale dei detenuti e dei loro parenti apra finalmente la strada a questa possibilità.

Per concludere. Negli ultimi tempi sono state avanzate alcune critiche circa l’utilità del ruolo svolto dai Garanti dei detenuti. Viene insomma da chiedersi: il Garante viene da taluni percepito come una figura scomoda, ingombrante? Non dovrebbe casomai sussistere, piuttosto che un dualismo, un rapporto di collaborazione tra chi lavora all’interno delle strutture e chi vigila affinché i diritti dei detenuti siano sempre rispettati?

Ovviamente della utilità dei Garanti devono dire le persone private della libertà, a cui tutela sono stati istituiti, non per caso, ma per le oggettive difficoltà di far valere i propri diritti nella propria condizione. Ma il primo dei diritti delle persone detenute è quello di poter contare su un’amministrazione ben funzionante ed efficace nel perseguimento degli scopi costituzionali della pena. Siamo dunque dalla stessa parte. Nella mia esperienza, la collaborazione tra il Garante e il personale penitenziario, a partire da quello di polizia, è massima. Mi dispiace per certi propagandisti strumentali, ma gli operatori che stanno sul campo sanno che possono contare anche sul Garante per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro, così come il Garante sa che migliori condizioni di vita e di lavoro del personale aiutano i detenuti ad affrontare nel migliore dei modi la difficile prova della privazione della libertà. Questo non significa che il Garante possa tacere di fronte a inadempienze o abusi: è il suo mestiere denunciarle a chi di dovere, ma sempre sapendo distinguere tra chi sbaglia e chi no, senza infangare migliaia di operatori corretti e scrupolosi e lasciando sempre alle autorità competenti, con tutte le garanzie del caso, l’accertamento dei fatti di cui pure venisse a conoscenza.

Intervista Anastasia