“E’ una detenuta modello, resti dentro fino alla fine”

Anna ha 28 anni, due bambine di cui si prende cura nella Casa famiglia protetta. Il suo comportamento è ineccepibile. I suoi reati? Roba da poco. Ma il Tribunale le nega l'affidamento in prova ai servizi sociali. Che dire?

di Stefano Anastasìa

(pubblicato sul quotidiano Il Riformista di mercoledì 9 dicembre 2020)

In fondo alle linee di azione sulla giustizia del Recovery plan messo a punto dal governo, buon ultimo (come si conviene al parente povero, che non si può fare a meno di invitare alla cerimonia familiare), compare il classico “favorire l’effettività del sistema penale attraverso il reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale per il contrasto alla recidiva e la diffusione della cultura della legalità”, espressione buona per tutte le stagioni, che un po’ ammicca alla “buonista” finalità costituzionale della pena, un po’ alla intangibile certezza della pena. Noi che siamo buoni, oltre che “buonisti”, la prendiamo dal verso che più ci aggrada e speriamo che sotto il titolo ci sia dell’altro, tipo progetti per l’adeguamento igienico-sanitario e la digitalizzazione degli istituti di pena o per la realizzazione di luoghi di dimora sociale necessari a ospitare imputati o condannati privi di un domicilio idoneo e solo per ciò costretti ad aspettare in carcere il giudizio o la fine della loro pena. Vedremo.

Intanto il sistema penitenziario continua a non funzionare a modo suo. E’ del 23 ottobre l’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza di affidamento in prova al servizio sociale di una giovane donna di 28 anni (la chiameremo Anna per convenzione), da quasi tre anni in detenzione domiciliare presso la Casa famiglia protetta di Roma (con lei, sono ospiti di Casa di Leda le sue due figlie di 2 e 5 anni), a cui (al momento della decisione e sulla base della liberazione anticipata ancora da riconoscere) restavano da scontare poco più di quattro mesi.

Già queste sommarie informazioni dovrebbero scandalizzare chi abbia qualche cognizione del diritto penitenziario e dei principi costituzionali che lo governano. Dunque non è vero che il carcere è una extrema ratio e che i condannati meritevoli possono accedere a misure alternative alla detenzione sempre maggiori fino alla definitiva libertà. Se l’affidamento in prova al servizio sociale non si può avere neanche negli ultimi quattro mesi di detenzione dopo un ottimo percorso, è evidente che non si può avere mai. Non a caso l’avvocato che rappresenta Anna non farà ricorso in Cassazione: non ci sarebbe il tempo perché possa essere discusso, verrebbe prima la libertà.

I tenebrosi custodi della certezza della pena già staranno storcendo il naso, di fronte a questo mio argomentare: chissà che reati ha commesso, questa criminale? Soccorre l’ordinanza di cui sopra: “varie condanne per furto”, cumulate per un totale di anni 4, mesi 1, giorni 8 di reclusione. Non un reato di criminalità organizzata, dunque, né un reato violento: tanti piccoli reati da niente. Dunque l’inflessibilità dell’autorevole collegio non sembra determinata dalla gravità della condanna.

C’è da chiedersi, allora, se in questi anni nella Casa famiglia questa donna non ne abbia combinate di tutti i colori, sì da non meritarsi un ulteriore beneficio. Ma naturalmente no (anche perché, sia detto incidentalmente, le sarebbe costato la permanenza in detenzione domiciliare e l’immediato rientro in carcere). Già due anni fa il commissariato di polizia competente riferiva “il buon andamento della misura, la positiva partecipazione alle attività all’interno della struttura e la prestazione di adeguate cure materne” alle figlie. Due anni dopo, non ne parliamo: è la stessa ordinanza del tribunale di sorveglianza a riconoscere che Anna “durante il periodo trascorso in comunità ha avuto un ottimo comportamento, occupandosi assiduamente delle due figlie piccole, rispettando le prescrizioni comunitarie e delle misure alternative concesse”. Non solo: “il suo comportamento è stato vagliato anche durante i numerosi permessi di uscita concessi per poter accompagnare e riprendere le figlie da scuola, nonché per svolgere saltuariamente il lavoro di cameriera” presso un ristorante cittadino.

Dunque siamo in presenza di una giovane donna, condannata per reati minori, ospite di una casa famiglia protetta da più di due anni insieme alle sue bambine, con un comportamento encomiabile e una, seppur saltuaria, attività lavorativa, a cui mancano pochi mesi di pena. Ma tutto questo non basta all’inflessibile Tribunale. Tanto per cominciare, l’istanza “non è minimamente supportata da una proposta lavorativa stabile, avendo il titolare del ristorante riferito di aver intenzione di continuare a valersi solo occasionalmente delle prestazioni lavorative” della donna, “e di potersi attivare a farle ottenere in futuro una borsa di lavoro” (che non si capisce se, nell’argomentazione del giudice, questa sia un’aggravante o meno). Non staremo qui a citare la giurisprudenza della Cassazione che considera anche l’impegno nel volontariatosufficiente a supportare un’istanza di affidamento in prova al servizio sociale, ma vien da chiedersi: il giudice relatore ha qualche cognizione di come funzioni il mercato del lavoro nel mondo contemporaneo? Con quante probabilità una “proposta lavorativa stabile” può aspettare una donna in esecuzione penale e con due figlie piccole a carico?

Ma nonostante quel denigratorio “minimamente” (l’istanza non è “minimamente supportata da una proposta lavorativa stabile”), il giudice sentiva la gracilità della motivazione perfezionista (ah, se tutti i carcerati avessero una casa dignitosa, una famiglia affettuosa, un lavoro stabile, che bel mondo sarebbe, il nostro!) e non poteva non far ricorso al knock down argument del giudizio prognostico sull’autore di reato: “per quanto evidenziato in merito ai precedenti, tra cui spiccano due condanne per evasione, e alle pendenze, la prevenuta (scrivono così, scusate, non è colpa mia, ndr) non appare meritevole della misura dell’affidamento in prova, non potendosi dirsi completamente neutralizzata la sua pericolosità”, invece la detenzione domiciliare “nell’apprezzamento comparativo delle esigenze di retribuzione e risocializzazione”può costituire “misura proporzionata all’entità dell’occorso (sic!) e capace di prevenire i pericoli di recidiva e di fuga”.

Che dire? Se la situazione è questa, se l’argomentare è questo, se la migliore esecuzione penale della persona più meritevole (una giovane madre di due bambine) non può dar luogo a un affidamento in prova al servizio sociale per gli ultimi mesi di pena non vi stupite se le timide misure deflattive del Governo per fronteggiare la pandemia in carcere non producono sostanzialmente nulla: 500 detenuti in meno nel primo di due mesi di vigenza; 500 detenuti sui 54mila presenti, sui 50mila posti regolamentari sulla carta, sui 46-47mila posti effettivamente disponibili. “Io speriamo che me la cavo”, come scriveva – tanti anni fa – un alunno del maestro D’Orta, sembra essere la stella polare del sistema penitenziario italiano, e dei malcapitati a cui tocca viverci o lavorarci.