di Stefano Anastasìa*
Nel luglio di quest’anno, l’anniversario della scomparsa di Alessandro Margara coincideva, quasi, con il cinquantesimo della riforma penitenziaria, quella che nel 1975 aveva finalmente cancellato la vergogna del Regolamento fascista del 1931. Cinquant’anni fa i detenuti diventavano persone, cittadini con i loro diritti e i loro doveri, e la prospettiva rieducativa annunciata dalla Costituzione assumeva i contorni di istituti giuridici indirizzati al reinserimento sociale. Meritoriamente il collega Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti della Toscana, e l’Archivio Margara, che gestisce il lascito del grande magistrato fiorentino, hanno voluto cogliere l’occasione per discutere dell’uno e dell’altra, così indissolubilmente legati.

Firenze, la targa della nuova “Via Alessandro Margara, magistrato riformatore” .
Sandro Margara, “magistrato riformatore”, come lo definisce la toponomastica fiorentina, sulla lapide che il Comune ha affisso a indicare la via a lui dedicata accanto alle Murate, le vecchie carceri cittadine, è stato tra i più importanti e conseguenti interpreti della riforma penitenziaria, sempre pronto a portare un po’ più in là il dettato legislativo, fino a rispondere a bisogni nuovi o emergenti nella vita quotidiana in carcere e nelle difficoltà della sua applicazione. Presidente dei Tribunali di sorveglianza di Bologna e di Firenze, è Margara che ispira l’amico Mario Gozzini nella definizione della legge che ne prenderà il nome.
È Margara che solleva le prime questioni di costituzionalità sul regime speciale del 41bis, facendo pronunciare la Corte costituzionale sui limiti che esso avrebbe potuto avere. È Margara che promuove la riforma del regolamento penitenziario da capo del DAP, prima di esserne rimosso a causa delle critiche e delle resistenze interne all’Amministrazione. È Margara che, da semplice pensionato, elabora una intera riforma dell’ordinamento penitenziario, presentata alla Camera nel 2004 da un gruppo trasversale di deputati (ma mai discussa). Sarà Margara il primo Garante regionale della Toscana, tra il 2011 e il 2013.
Cinquant’anni dopo, non è facile confrontarsi con le aspettative, le speranze e le delusioni che la riforma penitenziaria ha suscitato. Non è facile particolarmente ora, quando alle tare storiche del sovraffollamento e della scarsità di risorse si è aggiunta una ideologia punitiva per cui le garanzie penali (ammesso che siano effettive per tutti) debbono limitarsi al processo, perché poi arriva il tempo del “giustizialismo nella pena”. Da qui nasce, come appendice di una concezione autoritaria della società, l’idea disciplinare del carcere che vediamo all’opera nella moltiplicazione dei divieti e dei reati contestabili anche in carcere, anche in assenza di danni o violenze nei confronti di cose o persone.
L’equilibrio tra sicurezza e trattamento sembra essersi rotto: la prevalenza della sicurezza ha offuscato le finalità del trattamento, lo scopo rieducativo della pena che è, nella grandissima maggioranza dei casi, meramente eventuale. Il risultato non è solo il tradimento formale dell’articolo 27 della Costituzione, ma il pregiudizio delle condizioni di vita e di lavoro in carcere e la prospettiva di un carcere come macchina della recidiva, con meno sicurezza per tutti, per chi uscirà dal carcere, quando uscirà, e per la comunità che dovrà accoglierlo.
Al di là dei numeri del sovraffollamento, siamo sull’orlo di un precipizio: bisogna avere il coraggio di fermarsi e di tornare sui propri passi, ed è possibile farlo riscoprendo i valori della Costituzione, i principi ispiratori della riforma del 1975 e l’insegnamento di personalità come quella di Sandro Margara.
*Articolo pubblicato su Non Tutti Sanno, notiziario della Casa di reclusione di Rebibbia, Non tutti sanno SETTEMBRE_2025, con il titolo “Margara, padre della riforma tradita”.