Quasi due anni con “zio” Pippo*
La storia di un “piantone” che ha accompagnato fino all’ultimo un suo compagno di cella
di Andrea R. (detenuto nella Casa circondariale di Velletri)
Mi trovai una sera verso le 17,30 con l’appuntato che venne in cella accompagnando un nuovo cellante. Eravamo in tre in cella e il giorno prima era andata via un’altra persona. Questo nuovo giunto era una persona di 77 anni, un uomo minuto, ma con un sorriso e una simpatia che mi colpirono subito.
Lo accolsi io, ho sempre provato tanta tenerezza per le persone anziane e lo feci mettere nella branda sotto alla mia. Come si usa, gli feci il letto e preparai un buon caffè. Ovviamente anche gli altri compagni di cella lo misero subito a suo agio. Poi, una cosa mi colpì: mi fece cenno con la mano come a dire di avvicinarmi e quasi vergognandosi mi sussurrò: “A regà, ma du spaghetti ajo e ojo se ponno ave’?”. Mi si aprì il cuore e con la collaborazione di tutti, in pochi minuti, buttammo giù un chilo di spaghetti.
Ne mangiò due piatti e come dolce gradì due merendine e tre caramelle. Era golosissimo di dolci. Nei giorni a seguire, ogni mattina beveva latte con biscotti e mangiava una caramella. Lo vestivo, lo aiutavo a lavarsi il viso e poi facevamo una camminata con la stampella in corridoio. Nel primo periodo di conoscenza, mi adoperai per fargli avere la scheda telefonica e dei colloqui visivi. La cosa però si rivelò molto complicata perché nel suo reato rientravano anche la moglie e la figlia e prima che il giudice acconsentisse passò un po’ di tempo. Con fatica però riuscii anche a fargli cambiare gli abiti: li facevo entrare per me e li davo a lui perché faceva freddo ed era entrato in carcere senza nulla. Lo facevo con tutto il cuore e l’amore possibili.
Dopo qualche settimana e varie visite fatte in infermeria, la Dottoressa Diacono mi confermò che io sarei stato, come si dice qui, il “piantone”. In realtà il nome più appropriato sarebbe “badante” e così iniziai a svolgere quel ruolo 24 h su 24. Tutti conoscevano la persona che seguivo! Soprattutto in tanti gli volevano bene!
Io mi sento orgoglioso per quello che ho fatto; chiuso il blindo eravamo soli in una
cella speciale per due persone destinata a persone con disabilità. Mi occupavo di tutto, dalla A alla Z, oltre a tutto quello che riguardava anche la mia vita personale. Ma la giornata più brutta è ancora davanti ai miei occhi, non la dimenticherò mai. Un pomeriggio gli stavo portando la merenda, lui mi guardò con uno sguardo perso, poi rigirò gli occhi e il braccio destro gli cadde verso il basso. Mi sentii morire, in un attimo avvisai l’appuntato che a sua volta chiamò l’infermeria. Vennero in camera e dissero che sicuramente
aveva avuto un’ischemia cerebrale. Doveva essere portato giù e così lo presi in braccio e lo portai fino alla barella. Ci guardammo per una frazione di secondo, mi strinse la mano forte e poi chiuse gli occhi. Chiesi delle sue condizioni per diversi giorni e mi dissero che non aveva più ripreso conoscenza ed era stato trasferito in una struttura a Nemi. Di lì a poche settimane, spirò.
Dopo aver trascorso quasi due anni insieme, nel mio cuore è rimasto un buco che non si richiuderà mai e sono convinto che forse per lui si sarebbe potuto fare qualcosa in più, piuttosto che tenerlo in un carcere per tanto tempo nelle sue condizioni.
*Articolo pubblicato sul giornale della Casa circondariale di Velletri, “Voci di Ballatoio”, numero 2 – febbraio 2025, con il titolo Il “piantone”, scaricabile da qui.