Gli auguri del Presidente della Repubblica, per dare speranza e dignità a chi è in carcere e rendere merito a chi vi lavora

di Stefano Anastasìa

“Solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace: i valori, che la Costituzione pone a base della nostra convivenza … li vedo nella passione civile di persone che, lontano dai riflettori, della notorietà, lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere. … A … loro esprimo la riconoscenza della Repubblica. Perché le loro storie raccontano già il nostro futuro”. Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto fare gli auguri per il nuovo anno e rendere merito a chi lavora in carcere, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, di quella sanitaria o dell’istruzione, e alle migliaia di volontari che quotidianamente contribuiscono all’azione rieducativa prescritta dalla Costituzione.

Purtroppo però l’anno nuovo è iniziato come il vecchio: il sovraffollamento che cresce (anche l’ultimo dell’anno, quando generalmente i permessi diminuiscono lievemente il numero delle presenze) e le tragedie che si ripetono: un ragazzo suicida ad Ancona, un uomo morto in carcere a Napoli e un altro nel reparto di medicina protetta dell’Ospedale Belcolle di Viterbo, dopo un ricovero disposto coattivamente dal magistrato a seguito di uno sciopero della fame per protesta.

Di fronte a queste tragedie e all’infausta prospettiva che esse disegnano, di un altro annus horribilis, veramente a nulla servono le solite litanie sui fasti futuri dell’edilizia penitenziaria finanziata dal PNRR o la minaccia di nuove pene e sanzioni a chi è già in carcere. La verità è che, inseguendo demagogicamente la carcerazione della qualunque, il sistema penitenziario si avvita in una crisi senza prospettive, fomentata da una politica della sicurezza che produce solo più insicurezza, non offrendo nulla a chi viene costretto in carcere anche per reati da niente e che non ne potrà venire fuori che più solo, disperato e disponibile a qualsiasi cosa per sopravvivere.

Invece di inseguire la chimera di nuovi istituti e nuovi padiglioni detentivi, che saranno pronti – se va bene – tra anni, invece di promettere assunzioni di personale che non saranno mai sufficienti se la popolazione detenuta continua a crescere, bisognerebbe fare una valutazione credibile di quante persone il nostro sistema penitenziario possa effettivamente ospitare, garantendo spazi, servizi, prese in carico, opportunità rieducative, e tracciare una linea, restituendo gli autori di reati minori e i condannati a fine pena al territorio, un territorio arricchito di nuovi servizi sociali, formativi e sanitari capaci di intercettare i bisogni di sostegno prima che, in loro assenza, si manifestino in forme di devianza penalmente rilevante.

Intanto, nel mentre che la politica si chiarisca le idee, non resta che continuare a operare “per dare speranza e dignità a chi è in carcere”, fidando anche nella rinnovata attenzione che può venire dalla giurisdizione quando, come a Milano alla fine dell’anno o a Firenze all’inizio di quello nuovo, ha il merito di riconoscere questioni dimenticate, come l’oggettivo trattamento inumano e degradante costituito dal sovraffollamento o la natura discriminatoria della cancellazione della indennità di disoccupazione per i detenuti che hanno lavorato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Segnali di speranza di un mondo che può andare diversamente.