Smontare il reato di tortura è un premio all’omertà

di Stefano Anastasìa*

Nella terribile notizia giunta ieri da Verona, degli abusi sistematici compiuti da alcuni agenti in danno delle persone in stato di fermo presso un commissariato di polizia, ce n’è una minore, ma che non può essere sottaciuta: l’impegno e la dedizione con cui altri agenti del medesimo corpo di polizia hanno raccolto e trasmesso all’autorità giudiziaria le notizie di quegli abusi, giuridicamente configurabili come atti di tortura. In questa notizia nella notizia c’è la plastica raffigurazione della complessità delle vicende di cui parliamo: la responsabilità personale di alcuni, il senso del dovere di altri e un malinteso “spirito di corpo”, che pure aleggia su fatti violenti inescusabili.

Partiamo dall’inizio, dai fatti. Ancora una volta i fatti ci parlano della gratuità, fino al sadismo, della violenza su persone private della libertà. Nulla che abbia a che fare con i dibattiti dottrinari sulla legittimità dell’uso della forza in situazioni di emergenza: le vittime di questi abusi sono saldamente nelle mani della polizia, non mostrano alcuna pericolosità sociale nel contesto in cui si trovano, anzi si tratta di persone che manifestano evidenti i tratti della marginalità sociale, se non della incapacità di intendere le circostanze, e sono proprio per questo colpite e umiliate, in ragione di quella che ai loro aguzzini deve apparire come una indegna minorità umana. Brutali fatti materiali sostenuti da un chiaro apparato ideologico, quand’anche di quella dimensione ideologica le persone accusate potrebbero essere inconsapevoli. Se non “il fascismo”, senz’altro la “violenza fascista”, anche storicamente, è quella roba lì.

Di fronte a quei fatti e alla tumefazione delle vittime ci stanno tre gruppi di persone che vestono la stessa divisa: gli accusati, che avranno tutte le giuste garanzie processuali per eccepire lo scandalo di quanto riportato dall’ordinanza di adozione delle misure cautelari; i loro inquisitori, capeggiati da un Questore che rivendica per sé e per loro l’orgoglio di non aver chiuso gli occhi di fronte a quello che emergeva nelle intercettazioni e poi nelle documentazioni interne al commissariato; infine la solita “zona grigia”, di chi sapeva, forse aveva visto, o gli era stato riferito, ma non denunciava, per quieto vivere, per solidarietà di corpo, per l’acquisizione di un credito omertoso per il futuro, per quando anche a qualcuno di loro dovesse capitare di alzare le mani su un trattenuto, per fargli dire qualcosa, per frustrazione o solo per ripugnanza del suo modo di essere.

Gli accusati se la dovranno vedere con i loro giudici, e a loro lasciamo la responsabilità dell’accertamento dei fatti e delle personali responsabilità penali. Nel mezzo restano i buoni, quelli che fanno onore alla divisa che indossano, che credono alla legalità costituzionale, e dunque alla sottoposizione alla legge di ogni potere, anche quello di polizia, potere definitorio per eccellenza, e dunque potenzialmente assoluto nel momento concreto del suo esercizio; e restano i grigi, quelli che sapevano, ma tolleravano, per complicità, per spirito di corpo o per quieto vivere.

In questo contesto, le istituzioni democratiche dovrebbero avere una sola preoccupazione: dare forza ai “buoni” e prosciugare il campo dei “grigi”; rendere evidente da che parte stare quando si assiste a un tradimento della propria funzione e del proprio giuramento d’Ippocrate. E invece anche in questi frangenti, anche ieri, abbiamo sentito, addirittura dalla voce di un’autorevole esponente di governo, la sottosegretaria Wanda Ferro, la rivendicazione della necessità di modificare il reato di tortura, perché “deve essere adeguato alle sfide del nostro tempo”. Naturalmente non è necessario essere indovini di pari grado per decodificare la sibillina dichiarazione dell’on. Ferro, che può facilmente essere riferita alla proposta di legge n. 623, depositata alla Camera dal gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia, del tutto analoga a quella che nella scorsa legislatura fu firmata anche dalla Presidente del Consiglio, dal Ministro Lollobrigida, dal Vice Ministro Cirielli e dall’on. Donzelli. Oggi come allora, la tortura (neanche più così definita) diventerebbe una circostanza aggravante, in luogo del reato previsto dalla legge del 2017 in ottemperanza della Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura e dell’articolo 13, comma 3 della Costituzione, che contiene l’unico obbligo di punire previsto dalla nostra Carta: “E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.

Per carità di patria, speriamo che le proposte di modifica della legge sulla tortura restino tali, ma intanto, insieme con le improvvide dichiarazioni di esponenti di governo, i loro effetti li producono e scavano un solco tra i buoni e i grigi, a tutto vantaggio dei grigi, che si immagineranno sotto sotto sostenuti, se non dal loro diretto superiore gerarchico, dal vertice della catena di comando e che, se un domani gli dovesse capitare di alzare le mani, non penseranno di esser cattivi, ma di operare all’altezza delle sfide del nostro tempo.

*Articolo pubblicato sull’Unità di giovedì 7 giugno 2023.