Suicidi in carcere, che fare?

di Stefano Anastasìa

Ancora un morto in carcere, ieri mattina a Regina Coeli. Ancora una volta uno straniero (afghano), sempre con la solita bomboletta. 36 anni, detenuto dal 3 agosto scorso, in attesa di giudizio, accusato di un grave reato contro la persona, maturato probabilmente in circostanze occasionali, di vite ai margini negli interstizi metropolitani.

Sappiamo bene che i suicidi un carcere non si possono completamente evitare, come fuori e più di fuori. Non a caso sono decine di volte più frequenti che fuori. Il carcere genera e aggrava sofferenze esistenziali che non sempre sono riconoscibili né prevedibili. Il suicidio in carcere è un mezzo per sottrarsi alla sofferenza della prigione e di una vita girata per il verso sbagliato (in questo modo “la porta gli devono aprir”, cantava De Andrè). Il carcere senza suicidi non esiste né esisterà mai. E’ più facile liberarsi dalla necessità del carcere che liberare il carcere dai suicidi.

Come in tutte le situazioni tragiche, senza una via d’uscita o un bene assoluto da conseguire, quel che si può fare è tentare di ridurre il danno. E sappiamo che il ministero della Giustizia e le regioni, a partire dalla direttiva 2016 dell’allora ministro Orlando, si sono impegnati per piani di prevenzione a ogni livello e in ogni istituto. Quindi non si può lamentare l’inazione, e tantomeno la sottovalutazione. Né ci piace il gioco del cerino, della ricerca della responsabilità ultima, di chi non ha intuito, non ha vigilato o non ha impedito: il medico? Lo psicologo? Il poliziotto? Come se – appunto – il suicidio sia sempre prevedibile e ostacolabile, anche contro la lucida determinazione di chi decida di togliersi la vita. Questa comprensibilissima ricerca della responsabilità individuale sa troppo, però, di capro espiatorio (di chi è la colpa?) e non solo genera atteggiamenti burocratici e difensivi di tutte le figure professionali coinvolte, tutte timorose di essere messe sul banco degli imputati, ma disconosce ancora una volta la soggettività dei detenuti, considerandoli incapaci di determinarsi anche nella scelta tra la vita e la morte.

Non mi piace, quindi, la ricerca della colpa da accollare a qualcuno, ma ogni caso di suicidio va indagato ed elaborato, per capire come sia maturato e che altro avrebbe potuto essere fatto per prevenirlo. Questa, sì, è una domanda che bisogna avere il coraggio di porsi. Comprendeva la nostra lingua la persona che si è tolto la vita a Regina Coeli? Sapeva per quale motivo era in carcere e con quali prospettive? Era coinvolto in qualche attività? Aveva rapporti con i familiari o con altre persone care? E’ entrato in carcere da tossicodipendente, Reza, in trattamento metadonico presso un servizio territoriale. Ha continuato il trattamento anche in carcere, ma a scalare. Era seguito quindi dal servizio delle dipendenze di Regina Coeli e aveva colloqui periodici con l’educatrice penitenziaria e la psicologa del Serd. Ma non faceva colloqui con familiari o conoscenti. Pare avesse una famiglia e due figli a Genova, che non ha mai incontrato o sentito nei due mesi di carcere. Non un buon segnale, insieme con il suo italiano incerto.

Si sarebbe potuto fare di più? Forse sì, ma bisognerebbe riuscire a discuterne serenamente, fuori dall’ossessione della responsabilità penale individuale e senza le chiusure a riccio che determina.

Questo manca, forse, salvo buone prassi che non si fanno sistema, alla articolata macchina della prevenzione del rischio suicidario in carcere: l’attenta valutazione tra gli operatori di ciascun singolo caso di suicidio, per capire cosa avrebbe potuto essere fatto meglio, in cosa le procedure di prevenzione potrebbero essere corrette.

Tra queste, certamente, a livello di sistema, la mancanza di un’alternativa all’uso delle bombolette da campeggio per le piccole cotture dei detenuti. Sono almeno quindici anni che si discute della possibilità di dotare di piastre elettriche le camere detentive. Si potrebbe prevenire l’uso improprio delle bombolette, per farsi (come potrebbe essere stato anche in questo caso) o per suicidarsi (come di fatto è stato in questo caso). E si potrebbero evitare le esplosioni accidentali, che pure accadono, con gravi rischi per l’incolumità delle persone. Invece di costruire nuovi inutili padiglioni, per tenere in carcere autori di reati da niente, come la gran parte dei detenuti in Italia, non era meglio usare i fondi del Pnrr per l’adeguamento degli istituti esistenti alla normativa di sicurezza e igienico-sanitaria vigente? Non era meglio rifare gli impianti elettrici e dotare le stanze dei detenuti di piastre per la cottura? Non era meglio imparare la lezione del Covid e garantire in ogni stanza i servizi igienici e la doccia, come stabilisce il regolamento penitenziario approvato 21 anni fa?

(Articolo pubblicato su Il Riformista di giovedì 14 ottobre 2021 con il titolo “Il carcere senza suicidi non esiste, non esisterà”)