Dentro la gabbia, oltre la gabbia

Riflessioni intime e poetiche su ciò che ci toglie e ciò che resta della libertà

di Fabrizio M.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sulla libertà. Dovrebbe essere una cosa semplice, immediata, da scrivere in un batter d’occhio. In stile poesia d’amore, scriverei:
“Libertà, oh mia libertà
Quanto mi manchi, da quando son qua
Son qui che ti aspetto
Ti invoco distratto
Son come uno spettro
Ti vedo ma non ti tocco
Perché non posso, ti passo attraverso
È già tracciato il solco, scavato il fosso
Mi hanno trovato e proprio lì mi sono perso
Lì dove ti ho avuto
Ti ho lasciato il mio saluto
Con l’ultimo sorriso, io sono morto
D’immenso amore pervaso, io sono morto
Poteva essere evitato, ma sono morto.
Ora è tardi, non c’è rimedio
Fuggi e mordi, da questo podio
L’ultimo stadio, ormai superato
L’uccello e la gabbia, una storia antica
Perché via non sei volato, prima che fosse finita
Ma io ti amo!
Anche se non posso toccarti
Libertà, oh mia libertà
Vorrei urlarti
Ma lo sussurro piano…
Tanto più nessuno può sentirmi
Più nessuno sa come mi chiamo
Sono stato, e sempre sarò
Un eco perduto
Di una vita che non c’è più
Un sogno mancato
Di un amore appena trovato
L’ultimo respiro sul collo
Prima di essere condannato.

Questo sarebbe ciò che sentirei di dire, in chiave poetica, sulla libertà. Se dovessi invece mettermi ad analizzare il concetto di libertà in maniera più analitica, la prima considerazione che mi verrebbe da fare è che troppo spesso siamo noi stessi ad autolimitarci
nell’espressione di quella condizione naturale che è la libertà. Sembra difficile poter esplicare un concetto del genere, quando ci si trova proprio all’interno di una gabbia reale. Ma la gabbia siamo noi. Le gabbie che ci condizionano in tutte le scelte che prendiamo nell’arco della nostra vita sono lo scoglio più grande da superare.

Essere impossibilitati fisicamente dal poter decidere liberamente di sé stessi, ci mostra in maniera chiara ed evidente come sia ridicolo (come siamo stati ridicoli) ogni qualvolta ci siamo autolimitati. Come quando abbiamo rifiutato l’invito a ballare, solo perché non ci sentivamo abbastanza bravi, questo ci ha impedito di vivere appieno la nostra vita, in ogni sfumatura. Goderci quel momento, che come tutti i momenti della vita, è unico e irripetibile. Oppure come quando, per lo stesso motivo e per la paura del giudizio degli altri, non ci siamo sentiti di fare tantissime altre cose. Al contrario, a volte, ci siamo sentiti come costretti a dover fare cose che, in tutta libertà, non avremmo mai scelto di fare. Solo perché le persone intorno a noi le facevamo e le facevano sembrare come se fossero le uniche cose giuste da fare. Al contrario, noi saremmo sembrati quelli strani (diversi) se non le avessimo fatte con loro (come loro) e non siamo stati in grado di rispettare noi stessi.

Ci siamo omologati agli altri, ad un sistema indotto dalle condizioni esterne e che ci ha svuotato al nostro interno. Un sistema che ci ha privato della nostra libertà, della nostra identità. Noi complici consapevoli o inconsapevoli abbiamo accettato attivamente o passivamente tutto questo. Ma lo abbiamo accettato sempre perché vittime di noi stessi, siamo stati noi i primi a rinchiuderci in quelle gabbie mentali, che sono diventate sempre più pesanti ed oppressive. Ci hanno schiacciato in maniera martellante fino a che non abbiamo sbagliato e da un errore, sono diventati due e poi tre, quattro, cinque, e chissà quanti altri ancora ne abbiamo fatti. Ogni volta convinti di decidere noi ciò che stavamo facendo, ma oggi consapevoli di quanto fosse mendace questa convinzione, ci risvegliamo da quel torpore e ci ritroviamo qui. Ormai privati materialmente della libertà e posti di fronte a questa privazione così innaturale, che a tutti noi suona ingiusta, forzata e brutale. Sentiamo quel granello di sabbia nell’occhio che ci desta e il nuovo stato di consapevolezza raggiunto, ci porta a notare ciò che prima d’ora mai avevamo notato. Quel senso di fastidio ci stimola riflessioni più profonde, se non siamo inclini all’odio e all’ira.

Se non decidiamo che tutto quello che è successo a noi è colpa di qualcun altro (il giudice, il magistrato, la sorveglianza, l’appuntato). Se non decidiamo di lasciar sfociare la nostra rabbia verso il distruttivo, possiamo cogliere l’attimo (carpe diem) e abbiamo una nuova occasione di essere liberi ed essere costruttivi (perché possono rinchiudere il nostro corpo, ma non il nostro spirito né la nostra anima). Possiamo costruire qualcosa di diverso. Costruire un noi diverso in cui ritrovarsi e riscoprirsi per ciò che siamo veramente.

Ciò che prima non ci siamo mai permessi di essere. Ciò che si rispecchia perfettamente negli occhi del noi bambino, che fino ad oggi non ha capito perché non lo abbiamo rispettato abbastanza. Perché non abbiamo rispettato i suoi sogni, sogni che erano molto più semplici e puri di quelli che abbiamo creduto di dover inseguire. Sogni che ci avrebbero dato quello che mai più, in età adulta, avremmo trovato. La semplicità di sorridere alla vita e meravigliarsi di un fiore che sboccia e una vita che nasce.

Vorrei chiudere questa mia riflessione sulla libertà citando in tal proposito le parole cantate da Giorgio Gaber:
“Libertà
Non è stare sopra un albero
Libertà
Non è il gioco di un bambino
Libertà
Non è il mio canto libero
Libertà
È partecipazione”

Pubblicato sul giornale della Casa circondariale di Velletri, “Voci di Ballatoio”, numero 4 –agosto 2025, scaricabile da qui: Voci di ballatoio n.4

I numeri di “Voci di ballatoio” finora usciti si trovano nel sito dell’associazione La Farfalla.