Carceri in crisi, tra i diritti negati e la necessità di una clemenza straordinaria

di Stefano Anastasìa

L’ultima notizia dal fronte delle carceri è quella della morte di un uomo di quarantasette anni, con gravi problemi di salute, e che pure era ancora in carcere a tre mesi dal suo fine pena. Pena certa, inflessibile, disumana.

Con questi saldi principi siamo arrivati a quasi 64mila detenuti per meno di 47mila posti detentivi. Tre anni di annunci e sproloqui sulla costruzione di nuove carceri, incentivi alle comunità di accoglienza e riduzioni delle misure cautelari in carcere ci hanno portato a questo: al numero di detenuti che erano nelle carceri italiane quando il nostro paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti umani per il sovraffollamento strutturale che lo caratterizzava e che è tornato a caratterizzarlo (oggi non abbiamo ancora subito l’onta di una nuova sentenza pilota solo perché è stato istituito un rimedio interno prima di andare in Europa, e infatti i magistrati di sorveglianza nel 2024 hanno riconosciuto in 5837 reclami le condizioni inumane o degradanti cui sono costretti i detenuti). Ma la situazione, in realtà, è più grave che nel 2013: allora il numero dei detenuti che abbiamo oggi in carcere lo avevamo raggiunto in discesa, non in aumento. Nel 2009 l’Italia era già stata condannata nel caso Suleimanovic e nel 2010 il Governo Berlusconi aveva dichiarato lo stato di emergenza nelle carceri e, insieme con il piano edilizio di cui si incominciano a intravvedere oggi i primi risultati, aveva adottato una misura speciale di detenzione domiciliare per facilitare l’uscita dal carcere a fine pena. La popolazione detenuta stava dunque calando, non come oggi, che cresce senza soluzione di continuità.

In concreto questo significa che in molti istituti sono occupate le stanze di socialità, spesso senza servizi igienici, e che i più fortunati devono andare a dormire nel terzo piano dei letti a castello, se non con il materasso per terra. Proprio in visita a Cassino, il mese scorso, ho scoperto l’esistenza di una “quadriglia della socialità”: siccome una circolare del 2022, ottusamente applicata quando non ce ne sono le condizioni materiali, prevedeva che le quattro ore di socialità, fuori dalle camere detentive, i detenuti non possono più trascorrerle nei corridoi della sezione, ma in attività organizzate o nelle apposite “sale di socialità”, e siccome le attività in gran parte degli istituti penitenziari non ci sono al pomeriggio, per carenza del personale di polizia di supervisione, e siccome le stanze di socialità non ci sono o sono occupate da brande, i detenuti che vogliano trascorrere le ore di socialità fuori dalla propria stanza, come garantito dall’ordinamento, possono solo andare in altre stanze, che però essendo piene non possono ospitare altre persone, neanche per una partita a carte, se qualcuno non ne esce. Ed ecco così la “quadriglia della socialità”: io vengo da te se il tuo compagno va in un’altra stanza, da cui un altro andrà nella mia. A Latina, invece, un detenuto con competenze in materia di sicurezza sul lavoro mi rappresentava la necessità – a norma di legge – di indossare il casco di protezione per salire sulla terza branda.

E’ un sistema ormai alla deriva, quello penitenziario, che può funzionare solo come luogo di segregazione, in violazione della Costituzione e dei diritti fondamentali della persona: ignorati questi elementi basilari della nostra cultura e del nostro ordinamento giuridico, in cella ne metti quanti ne vuoi, il personale penitenziario si limita ad aprire e chiudere le porte, ai sanitari possiamo pure rinunciare e chi ce la fa sopravvive. Ma siccome così non si può andare avanti, ogni giorno che passa è più necessario un provvedimento di clemenza, nella forma costituzionale dell’amnistia e dell’indulto o in qualche altra forma di riduzione o commutazione delle pene per via ordinaria. E solo un provvedimento straordinario di clemenza potrà consentire al Governo di perseguire i propri progetti di lungo periodo, nella costruzione di nuove carceri e nell’assunzione di personale, senza violare qui e ora la Costituzione e i diritti fondamentali dei detenuti. E solo un provvedimento straordinario di clemenza può consentire il convergere di forze politiche diverse che poi continueranno a perseguire politiche criminali legittimamente diverse, su cosa è necessario punire e come.

Si tratta di riflessioni elementari che a diverso modo sono state sollecitate dalla bolla di indizione del Giubileo della speranza voluto da Papa Francesco e dalle parole con cui Papa Leone ha accolto in San Pietro i fedeli per il Giubileo dei detenuti. Riflessioni sollecitate dalla continua attenzione del Presidente della Repubblica alle condizioni delle carceri e che sono state condivise dal Presidente del Senato, dal Vice Presidente del Consiglio superiore della magistratura e da ultimo anche dal garante nazionale delle persone private della libertà. L’ottusa negazione del problema e delle proposte che ne seguono non riuscirà a cancellarne la verità e nella necessità, ogni giorno più urgente, come spero vorranno testimoniare gli operatori penitenziari in occasione dell’assemblea nazionale convocata per il prossimo venerdì 6 febbraio a Roma da un ampio arco di associazioni e movimenti, da Antigone alla Conferenza del volontariato della giustizia, da Nessuno tocchi Caino al Coordinamento delle comunità di accoglienza. Sarà importante, in quella occasione, ascoltare le voci non solo dei volontari o dei garanti, ormai sospettati di intelligenza con il nemico, ma di chi lavora ogni giorno in carcere, alle dipendenze del ministero della giustizia, delle scuole, delle Asl, perché dicano e spieghino a chi ha il potere di cambiare le cose, che così non si può andare avanti.

Sperando, nonostante tutto, in un anno migliore di quello che va a chiudersi.