Diritto e clemenza: che fare per il carcere?

di Stefano Anastasìa

L’intervento conclusivo dell’incontro promosso con Luigi Manconi e Paolo Ciani e svoltosi mercoledì 11 giugno presso la Biblioteca del Senato, con i contributi di Donatella Di Cesare, Luciano Eusebi, Andrea Pugiotto e del Presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Zuppi, ospiti della Vice Presidente del Senato Anna Rossomando.

Quando, nell’ottobre scorso, con Luigi Manconi ci siamo decisi a redigere e indirizzare a tutti i parlamentari, di tutte le forze politiche, un appello per un provvedimento di clemenza, avevamo sotto gli occhi le immagini e le sofferenze di una lunga estate calda, quella dello scorso anno, in cui il numero delle persone detenute continuava a crescere, mentre il personale di polizia era costretto a turni di sedici, venti, ventiquattro ore, per garantire di notte almeno un posto di guardia per ogni sezione, ogni 100, 150, 200 detenuti. Il caldo, soffocante come quello che sta per arrivare, faceva (e fa) a pugni con la ferrea chiusura delle camere detentive. Si moltiplicavano i gesti disperati di singoli e le proteste collettive di molti. Non era difficile prevedere un aggravamento progressivo della situazione, e così ci siamo permessi, insieme a molti e diversi compagni di strada, di diversa esperienza, cultura e formazione, da Giovanni Fiandaca a Franco Corleone, da Mauro Palma a Clemente Mastella, da Rita Bernardini a monsignor Paglia e a Dacia Maraini (solo per citarne alcuni), di pronunciare quelle parole che sembrano impronunciabili, ma che pure sono nella nostra Costituzione democratica, non come residuo di un potere assoluto, ma come strumento di una politica della giustizia che sappia rimettere in equilibrio la bilancia, quando vada fuori asse e diventi essa stessa strumento di ingiustizia: amnistia e indulto, diciamolo pure senza vergogna, come etimologia vuole: “dimenticanza” di reati minori e “perdono” di una parte di pena.

Il nostro Paese, nella prima Repubblica, ne fece forse un uso finanche eccessivo, ma riuscì, in questo modo, a sottrarre all’algida contabilità delle pene due trasformazioni epocali: da società (prevalentemente) agricola a società (prevalentemente) industriale e poi a società “dei servizi” nell’economia globalizzata. I problemi di convivenza, quelli che interessano la giustizia e, duramente quella penale, trovavano altre declinazioni e altre forme di composizione. Non è più quel tempo, lo sappiamo, e per questo è diventato difficile pronunciare quelle parole e la loro premessa: la clemenza, quella inclinazione che infrange la rigidità di un’astratta rettitudine per avvicinarsi alla realtà della vita umana e delle sue sofferenze, quella clemenza che, scompaginando il giudicato, dà conferma alla speranza dei condannati e alle sue aspettative.

Se riusciamo a liberarci dall’interdetto che impedisce di dare un senso all’appello giubilare alla clemenza di Papa Francesco, non è difficile prefigurare quel che sarebbe necessario: basterebbe un provvedimento di indulto per le pene o i residui di pena fino a due anni per cancellare il sovraffollamento e rimettere in funzione il sistema penitenziario italiano. 16.568 persone, il 31 maggio scorso, scontavano pene o residui pena inferiori a due anni: tanti quanti sono ospitati in eccesso nelle nostre carceri.

Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto (quorum che pure meriterebbe di essere rivisto, come giustamente ci ricorda Andrea Pugiotto), lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il Presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore dell’ultimo provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione.

Contrariamente a una errata opinione, molto e autorevolmente diffusa, quel provvedimento ha dato risultati assai positivi, non solo decongestionando gli istituti di pena e consentendovi – seppure solo per un certo periodo – condizioni accettabili di vita e di lavoro, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca commissionata dal Ministero della giustizia all’Università di Torino nel 2006, degli oltre 27mila detenuti scarcerati nei mesi immediatamente successivi all’approvazione dell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere. Se un limite c’è stato nell’indulto del 2006, esso va individuato nel non aver previsto una contemporanea amnistia per i reati minori, che avrebbe consentito di prolungare nel tempo il suo effetto deflattivo.

E’ quindi fondatamente prevedibile che un provvedimento di clemenza – pur limitato a due anni di indulto e corredato da un’amnistia per reati che non siano punibili, nel massimo, a pene superiori a quelle che è già possibile scontare in alternativa al carcere – possa non solo porre termine alla gravissima situazione di sovraffollamento esistente e alle intollerabili condizioni di vita e di lavoro in carcere, ma dare tempo alle misure programmate dal Governo (a prescindere dal fatto che le si condividano o meno, e io non le condivido) di potersi dispiegare e mettersi alla prova del criterio dell’efficacia.