Non rieduca, non reintegra, lede la dignità umana. Il sistema penitenziario italiano tradisce ogni giorno la Costituzione
di Stefano Anastasìa*
Anche oggi un uomo si è tolto la vita dietro le sbarre.
E’ successo proprio oggi, mentre scrivo queste parole, ma potrebbe essere successo anche oggi, nel giorno in cui queste parole vengono lette da un loro occasionale lettore. Un giorno vale l’altro e ogni giorno è buono per morire, in carcere: questa, purtroppo, è una drammatica verità del nostro sistema giudiziario, e noi vi ci stiamo drammaticamente abituando.
L’anno scorso abbiamo visto addirittura all’opera una cinica contesa contabile, tra chi da anni ha fatto dell’informazione sulle morti in carcere la motivazione del proprio impegno civile (il sito/rivista Ristretti Orizzonti, con il suo dossier “Morire di carcere”) e l’Amministrazione penitenziaria, che eccepisce come morti per “cause da accertare” tutte quelle che non siano avvenute col cappio al collo o come non avvenute in carcere quelle dei detenuti soccorsi e morti in ospedale: alla fine dell’anno, Ristretti Orizzonti contava 91 suicidi in carcere, quanti mai dal 2000 a oggi, l’Amministrazione penitenziaria “solo” 83, uno in meno del record precedente, gli 84 del 2022 post-Covid; come se uno in più o uno in meno, sette o otto in più facessero la differenza.
Se ogni vita conta, ottantatré, ottantaquattro o novantuno suicidi in carcere sono sempre troppi, come troppi sono i suicidi di poliziotti e operatori penitenziari: sette lo scorso anno, tre dall’inizio di questo.
La verità è che il carcere è un luogo di programmatica degradazione delle persone che vi sono costrette. Nonostante le migliori intenzioni e quel che dice la Costituzione, la pena detentiva è una pena degradante, che vuole far soffrire le persone che vi sono costrette attraverso un regime di privazioni che immediatamente si estendono dalla sola libertà di movimento, all’autonomia individuale, alle relazioni affettive, al benessere psico-fisico. E alla stessa degradazione sono costrette anche le persone in attesa di giudizio, anche se la Costituzione le considera ancora innocenti. Questo è quello che vuole la parte peggiore di noi, di noi che stiamo fuori, e che ci sentiamo tranquillizzati dal fatto che “i cattivi” siano là dentro, chiusi in gabbia, che un giudice abbia deciso o no della loro colpevolezza.
Per questo non fa scandalo che in carceri destinate a ospitare poco meno di 47mila persone ce ne siano ben più di 62mila: perché non le vediamo e se stanno là dentro se lo saranno meritato.
Per sfortuna sua e per fortuna dei suoi compagni di detenzione, l’ex-sindaco di Roma Gianni Alemanno è da sei mesi in carcere e ha cominciato a raccontare quel che vive e quel che vede a Rebibbia, pur nella migliore delle sezioni detentive delle carceri romane e laziali, e finalmente i suoi ex-camerati e compagni di partito hanno cominciato ad ascoltare, a vedere e, forse, a capire. A capire che così non si può andare avanti, che la dignità della persona non può essere compromessa, che l’esercizio del terribile potere punitivo ha un limite invalicabile nel non poter infliggere sofferenze ingiuste che fanno dello Stato un criminale come gli altri, come nel caso della pena di morte negli Stati Uniti, in Iran, in Cina e in tanti altri Paesi del mondo.
Aperti gli occhi sul mondo del carcere, la destra al governo non potrà tornarsene agli slogan elettorali, di cui sono stati infarciti tanti provvedimenti legislativi di questi anni, dal decreto rave a quello sicurezza, non potrà tornare a dire “garantisti nel processo, giustizialisti nella pena” (versione Delmastro) o “buttare via la chiave” (versione Salvini) o rifiutarsi di andare a “visitare i carcerati” fin dentro le celle, senza limitarsi a una pacca sulle spalle ai selezionati partecipanti alle iniziative pubbliche organizzate in carcere. Né, di fronte alle sofferenze raccontate da Alemanno, potranno ancora limitarsi a ripetere la giaculatoria ministeriale, sulla costruzione di nuove carceri, sul rimpatrio dei detenuti stranieri, sui tossicodipendenti in comunità, tutte cose che se mai accadranno (e alcune, statene certi, non accadranno mai), non potranno che accadere tra molti, troppi anni, quando troppe carcerazioni, sofferenze e morti si saranno consumate in carcere.
Alemanno pone un problema di oggi, che oggi va affrontato, riportando in equilibrio gli elementi del sistema penitenziario: gli spazi, il personale, le risorse e i detenuti. Se nel breve periodo non è possibile moltiplicare gli istituti penitenziari, aumentare le risorse per il sistema e assumere il personale di sicurezza, sanitario ed educativo necessario, non resta che ridurre il numero dei detenuti a quanti possano avere una sistemazione dignitosa in carcere e un’offerta rieducativa adeguata alla promessa costituzionale. Sedicimila detenuti in meno, tanti dovrebbero essere, naturalmente selezionati tra chi è stato condannato a pene minori o che ne abbia già scontata una parte significativa. Un indulto di due anni basterebbe: sedicimila sono i detenuti condannati a meno di due anni di carcere o a cui mancano da scontare meno di due anni di una pena più lunga.
Naturalmente bisognerebbe offrire un sostegno al terzo settore e agli enti locali per l’accoglienza e il sostegno agli scarcerati, spesso privi di risorse proprie per il reinserimento sociale, ma si può fare. Maggioranza e opposizioni potrebbero condividere una decisione di emergenza come questa, per poi tornare a dividersi per il futuro, tra chi crede che la povertà e la marginalità sociale, che costituiscono la gran parte della detenzione, debbano ingigantire le carceri del futuro e chi pensa che debbano essere superate attraverso politiche di integrazione e solidarietà sociale.
Destra e sinistra, al fondo, stanno in questa alternativa, ma l’una e l’altra non possono sottrarsi al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e alla finalità rieducativa della pena prescritte dalla Costituzione.
*Articolo pubblicato sul sito “Diurna” lunedì 7 luglio 2025.