“Il riconoscimento del diritto alla sessualità dei detenuti non solo favorirebbe la loro crescita personale, ma andrebbe a beneficio dell’intera istituzione carceraria perché migliorerebbe i rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria e aiuterebbe il clima generale della vita in carcere”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, alla notizia che il giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha sollevato una questione di legittimità innanzi alla Corte costituzionale sul divieto ai detenuti, derivante dall’applicazione dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, di fare sesso con i loro partner, in quanto tale divieto potrebbe colpire i diritti costituzionali.
“L’interessato si duole del divieto impostogli dall’amministrazione di svolgere colloqui intimi con i propri familiari e in particolare con la compagna”, – si legge nell’ordinanza del giudice Fabio Gianfilippi, chiamato in causa da un reclamo di un detenuto. Quel che è permesso ai detenuti di Francia, Svizzera, Austria, Slovenia o Spagna, infatti, e complessivamente in 31 Paesi europei (ma anche in India, Messico, Israele, Canada) agli italiani è negato. E ci sarebbero pure in questo senso le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa o del Parlamento europeo che auspicano le “visite coniugali” ai detenuti. E c’è anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo, il tribunale internazionale di Strasburgo, a manifestare apprezzamento per gli Stati che prevedono i colloqui intimi e l’esercizio dell’affettività anche di tipo sessuale. C’è una recente sentenza del 2021 che ribadisce questo orientamento.
“Una amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività – scrive il giudice Gianfilippi – finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”.
Siccome non ci sarebbero motivi di sicurezza ad impedirlo (il giudice stesso avverte che ovviamente non se ne può parlare per i detenuti sottoposti al 41 bis, il carcere duro che deve troncare i rapporti con l’esterno), la negazione della sessualità a chi sta dietro le sbarre “si volge in mera vessazione, umiliante e degradante, peraltro non soltanto per il condannato, ma per la persona con lui convivente, cui pure viene interdetto l’accesso a quella sessualità e genitorialità che potrebbe, ove lo si volesse, derivarne”.
Alla suprema corte, il giudice di Spoleto rivolge un quesito che è insieme giuridico e morale: a vietare i rapporti sessuali, poi, non si contravviene allo spirito della Costituzione sulla protezione della famiglia, anche quella di un condannato?
“Già nel 1999 – ricorda Anastasìa -, l’allora capo del Dap Alessandro Margara propose la revisione dell’ordinamento carcerario con la previsione di aree ad hoc per incontri non a vista: il Consiglio di Stato rispose che non si poteva cambiare il regolamento, ma si doveva emanare una legge. Dopo oltre vent’anni siamo ancora qua a discuterne”.
Sono anni che si parla di concedere pause di intimità ai detenuti italiani. La legge lo vieta, perché il regolamento carcerario impone che i colloqui del detenuto con il o la partner, anche se concesso in sale separate, dev’essere sempre sottoposto alla vigilanza degli agenti. Il carcere non è mai considerato un luogo privato, ma pubblico per definizione. E va da sé che il sesso in un luogo pubblico non si può fare perché, a rigore, è un reato in sé. Due proposte di legge, avanzate dai Consigli regionali di Toscana e Lazio, in discussione in Senato nella passata legislatura, non hanno concluso l’iter. La proposta di legge approvata con una mozione del Consiglio regionale del Lazio, in particolare, è partita dalla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, realizzata con la condivisione e il supporto del Garante dei detenuti e della Presidenza del Consiglio regionale, “Affettività e carcere. Un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte”, i cui risultati sono stati raccolti nel libro di Sarah Grieco, la ricercatrice che ha coordinato la ricerca, “Il diritto all’affettività delle persone recluse”.
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